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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2011 alle ore 17:17.

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(Corbis)(Corbis)

«Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». È passato ormai quasi un secolo da quando Eugenio Montale, negli Ossi di seppia, diede voce allo stranito malessere di chi aveva sentito «fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che lo circondava», e ne aveva fatto, come lui stesso ebbe a scrivere, «la materia della propria ispirazione».

Mark Strand, di cui Mondadori ha appena pubblicato negli "Oscar" una scelta di tutte le poesie, ribadisce quella disarmonia nei confronti del mondo, «but with a difference», come si dice in araldica. La ridefinisce, cioè, modificandola. E rispetto a Montale fa un passo, non avanti ma indietro. Si muove nella direzione dell'amato Leopardi e quindi, paradossalmente, verso una sorta di certezza nei confronti delle cose invisibili, che però in luogo di apparire negativa – il nulla alla fine di tutto – è invece platonica. Strand è, infatti, un cacciatore di ombre. Di ciò che presuppone un corpo, cioè una sostanza. È un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi – o di ciò – che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato.

V'è un lato enigmatico, per non dire enigmistico – oltre che, ben inteso, umoristico, – in taluni momenti della sua poesia. Ma nella sostanza Strand raccoglie l'eredità di quella meditation poetry dei riformati del Seicento, riproposta in termini moderni da T.S. Eliot, e ripresa da Wallace Stevens in una maniera che è stata per lui decisiva. Poeta che in gioventù avrebbe voluto essere pittore, Strand ha significativamente indicato, in uno scritto su Edward Hopper (The Loneliness Factor), come, incorniciando il centro di un suo dipinto con una figura trapezoidale, i lati lunghi del poligono suggeriscano all'occhio di chi guarda un punto di fuga («vanishing point») in cui è presumibile che si consumi o si sia consumato il destino dei suoi personaggi.

Ma si può pensare a un altro artista a proposito delle situazioni surreali o fantastiche in cui ci si viene a trovare andando dietro alle costruzioni verbali di Strand: l'incisore olandese M.C. Escher con le sue ingannevoli prospettive, le distorsioni geometriche e quelle scale i cui gradini, quando si arriva in cima con gli occhi, ci si accorge che sono il rovescio di una rampa che invece scende. Un modo salutare, direbbe Strand, per avventurarsi al di là della tranquilla routine delle nostre abituali percezioni e, attraverso un percorso che mette in ansia, tornare a vedere con occhi nuovi la realtà che ci sta attorno

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