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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2011 alle ore 08:15.

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di Gianfranco Ravasi
Passa in tv un modesto (e quindi pettoruto e arrogante) politico e m'accorgo che proclama con autocompiacimento: «Non sono un uomo per tutte le stagioni». Il misero è convinto, con questa professione di coerenza, di celebrare la sua cristallina identità; egli ignora che «uomo per tutte le stagioni» era, in realtà, la solenne epigrafe che Erasmo da Rotterdam aveva assegnato a un altro politico, questa volta grande, modesto (in ben altro senso) e veramente coerente, cioè Tommaso Moro. Anzi, fu proprio quella definizione a diventare nel 1966 il titolo di un film straordinario di Fred Zinnemann, A Man for All Seasons, con un cast "stellare", dal formidabile protagonista Paul Scofield a Orson Welles, da Vanessa Redgrave a Susanna York, da Nigel Davenport a Robert Shaw, e con un bottino finale di cinque Oscar.
Ma perché mai questo integerrimo cancelliere di Enrico VIII, dissoluto e tirannico re d'Inghilterra, si merita un tale motto, lui lontano anni luce dai nostri politici voltagabbana? Lo merita per la variegata complessità della sua figura che brillò in ogni stagione della sua vita e in ogni situazione: marito e padre affettuoso, politico rigoroso, umanista raffinato (come non ricordare la sua celebre Utopia?), pensatore, giurista e soprattutto cristiano fedele e appassionato. Ed è un'alta testimonianza di quest'ultimo lineamento (ma non solo) il saggio De tristitia Christi che nell'edizione italiana viene proposto come Gesù al Getsemani (in realtà nell'autografo sir Thomas More aveva declinato varie titolature latine).
Siamo alle soglie della sua esecuzione capitale che avverrà il 6 luglio 1535; egli è carcerato nella Torre di Londra ed è spontaneo per lui credente ricorrere al modello supremo, il Cristo dell'agonia sotto le fronde degli ulivi del Getsemani, componendo una meditazione-esortazione capace di intrecciare esegesi e parenesi, argomentazione e invocazione. La solitudine di Gesù, circondato soltanto da discepoli assonnati, si trasforma in domanda lacerante rivolta al Padre perché «allontani il calice» della sofferenza e della morte. Paura, preghiera, dolore fisico e sofferenza interiore, amore e tradimento, silenzio di Dio e fiducia: tutto si raggruma in quelle ore nell'anima di Cristo e in quella di Tommaso. Ma, proprio allora, all'ex-cancelliere del regno vengono sottratti anche carta, penna e inchiostro e così il testo rimane incompiuto nella scena dell'arresto di Cristo e l'ultima frase vergata diventa quasi un emblema della fine dello stesso autore: «solo allora furono per la prima volta messe le mani addosso a Gesù».
Accanto a questo gioiello di fede e di testimonianza accostiamo un altro classico della spiritualità e della stessa letteratura, la Salita del Monte Carmelo di quel genio della mistica che fu lo spagnolo Juan de la Cruz (1542-1591), Giovanni della Croce per gli italiani che possono leggere in una nuova versione questa sua emozionante ascesa verso una vetta luminosa, ma lungo pendici immerse nella tenebra.
Idealmente a quest'opera si accosta, infatti, l'altro capolavoro giovanneo, la Notte oscura, scritti entrambi segnati non solo da una certa oscurità tematica, ma anche e soprattutto dal l'eclisse della luce divina per cui l'anima procede in un gelido e drammatico cono d'ombra. Anche in questo caso siamo di fronte a un'opera incompiuta, ma forse per una crisi di ispirazione dello stesso autore che non riesce più a tenere l'equilibrio tra il dinamismo della contemplazione, sollecitata dalle splendide strofe-guida iniziali, e la staticità rigorosa dell'analisi dottrinale in cui si trova aggrovigliato.
Che il percorso fosse arduo in questa ascesa-ascesi di catarsi dello spirito e dei sensi lo ribadiva lo stesso Juan, consapevole di inoltrarsi in ignoti sentieri d'altura: «per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai…, inclinandoti non al più facile, ma al più difficile, non al più ma al meno». Ed è così che si dispiega davanti a lui il simulacro del Nada, quel vuoto dilagante che non è però il Nulla della celebre parodia del "Padre nostro" di Hemingway («O Nada che sei nel Nada, sia santificato il tuo Nada…»), ma è la necessaria rasura degli ostacoli così da lasciare spazio all'Infinito divino. Come scrive nella nota finale di questa traduzione – che è significativamente affidata a un sacerdote scrittore, Luisito Bianchi – un esegeta del pensiero sanjuanista, il carmelitano Luigi Gaetani, «Nada rappresenta quell'orizzonte teologico che consente all'uomo di sforare su Dio, e a Dio di irrompere nello spazio dell'effimero, planando nello spazio vitale di ogni uomo e di ogni donna».
Concludiamo questa sorta di trittico di letteratura spirituale con un ultimo autore che affascinò Bossuet e Fénelon, Teresa di Lisieux e Raïssa Maritain, Bremond e de Certeau. Si tratta del gesuita francese del Seicento, Jean-Joseph Surin, la cui eccezionale statura intellettuale e mistica fu oscurata da due vicende tragiche. Da un lato, la tempesta di una sua malattia mentale e, dall'altro, la sconcertante avventura delle possessioni diaboliche nel monastero delle orsoline di Loudun di cui era cappellano e dove imperava una priora dai contorni misteriosi e oscuri, madre Jeanne des Anges, la cui allucinata creatività confonderà lo stesso Surin. Nel 1971 Ken Russell, col suo film I diavoli, affiderà a Vanessa Redgrave questo ruolo, ma si abbandonerà a una ricostruzione molto libera, ritmata prevalentemente su frenesie erotiche e isterie collettive.

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