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Questo articolo è stato pubblicato il 24 luglio 2011 alle ore 08:14.

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Per un attimo ha temuto di non farcela. Un sospiro, un fremito alla corona e la Regina Elisabetta, the Queen, God Save the Queen, ha chiuso gli occhi. E in quella pausa brevissima e infinita davanti all'obiettivo di Chris Levine, in quel delicato e imperioso rifiuto a proseguire il ritratto, Sua Maestà deve aver rivisto le migliaia di fotografie che hanno segnato i suoi sessant'anni di regno: dal 1952, appena salita al trono, quando posò giovanissima per Dorothy Wilding, stessa corona, stessa pettinatura corinzia, stessi orecchini di perle, a oggi, a pochi mesi dal suo Giubileo di Diamante che verrà festeggiato nel febbraio 2012. Una fatica immane, un peso enorme, quella montagna di immagini che la Regina ha portato sulle spalle con la rigidità e la freddezza imposti dal ruolo. Uno sforzo titanico di equilibrio, perché a cambiare, a prendere nuove forme non è stato soltanto il suo viso, ora morbido di cipria e di rughe, con il rossetto che implacabile penetra nei rivoli della pelle intorno alle labbra. A cambiare è stato semplicemente tutto, gli sguardi, le distanze, i media, la stessa Inghilterra, non più impero ma semplice isola d'Europa, come racconta la straordinaria mostra itinerante «The Queen. Art and Image», aperta fino al 18 settembre alla National Gallery Complex di Edimburgo, quindi ai National Museums Northen Ireland, e per il gran finale dal 17 maggio al 21 ottobre 2012 alla National Portrait Gallery di Londra.
A festeggiare in anticipo la figlia di Giorgio VI, a reggerle lo strascico, a implorarle un po' più di calore, a confonderla crudelmente con una statua di cera, persino a riderle dietro, e infine, da post coloniali, a riportarla agli antichi splendori con ogni trucco di photoshop, sono stati più di ogni altro suddito i fotografi. The Queen, con buona pace di ogni diva o divo del cinema, della cultura, della politica, è stato l'individuo, al di là dei generi femminile e maschile, più fotografato nella storia dell'umanità. Una global celebrity, come annuncia con soddisfazione britannica il curatore della mostra Paul Moorhouse, affiancato nel catalogo da uno splendido saggio di David Cannadine. La regina Elisabetta, «con i suoi magnifici occhi azzurri e la sua naturale eleganza», nelle parole del suo segretario personale Jack Colville, ha attraversato tutte le ere della comunicazione moderna, passando dalle grandi lastre alle fotocamere 35mm, dai cinegiornali alla televisione, dall'aplomb radiofonico dei discorsi di Natale alla violenza della stampa scandalistica. Uno tsunami di curiosità e pruriti, puntualmente documentati, che ha investito le mura della residenza reale e il viso della sua nobile inquilina. Altre regole, altra etichetta.
«My castle, my rules», aveva dichiarato con orgoglio Lionel Logue, terapista australiano nel film Il discorso del re, al suo più celebre paziente, Giorgio VI. «Qui – aveva aggiunto indicando lo squallore del suo studio – ci vuole equità». Perché i fotografi imponessero le loro regole e facessero della vita reale, cioè autentica, il loro castello, abbiamo dovuto aspettare a lungo. L'immagine della regina Elisabetta, nell'euforia di una nuova generazione di «Elisabettiani» come aveva dichiarato Winston Churchill all'annuncio della sua ascesa al trono, nasce altissima, irraggiungibile. Due gli interpreti per eccellenza: Dorothy Wilding, che aveva già fotografato la futura sovrana nel 1937, undicenne all'incoronazione del padre, e che produrrà ben altri cinquantanove ritratti ufficiali riprodotti anche sulle banconote e sui francobolli; e poi, naturalmente, il maestro, Cecil Beaton. A lui, con quel meraviglioso senso della scenografia poi sfruttato a Hollywood, spettano le icone del potere: dall'incoronazione a quel capolavoro di forma e contenuto che vede la sovrana avvolta e isolata da un elegantissimo mantello nero. La data è significativa: il 1968. La rivolta sta scuotendo il mondo e in quello stesso anno Eve Arnold, fotografa Magnum, sorprende la regina nella più rivoluzionaria delle pose: piove e la sovrana sorride sotto un ombrello. Gli argini si rompono e nel 1971, immortalate da Patrick Lichfield, quelle stesse labbra si aprono in una risata. I sudditi si stanno allontanando, dicono i sondaggi, e Sua Maestà deve andare loro incontro. Magari divenendo più sciolta. Magari scendendo in miniera. Magari nel 1981, quando Gilbert & George le dedicano un irriverente collage di fuochi d'artificio, diventando suocera.
Ma a quel punto The Queen perde il trono, almeno nel cuore del suo popolo e dei suoi cantori, i fotografi. Nasce il mito di Diana e tanto lei diventa bella e amata, tanto la regina, come nelle favole, invecchia e inacidisce. Fatale per entrambe, lo splendido scatto di Peter Nicholls che nel 1997 sorprende la Regina e il Principe Filippo immersi nei fiori appoggiati al cancello di Buckingham Palace, oceanico omaggio per la morte di Lady D. Quei due corpi galleggiano, ormai alla deriva. E a nulla servono le fotografie manieristiche di Annie Leibovitz, del 2007, e in una di queste la sovrana indossa nuovamente il celebre pastrano nero. Ormai il fondale, un meraviglioso giardino, è falso, un'aggiunta di computer. L'incanto è rotto, l'immagine perde pezzi e quando i fotografi, durante il matrimonio di William e Kate, si sono distratti guardando il magnifico didietro di Pippa, la Regina deve aver tirato un sospiro di sollievo e per un attimo ha chiuso gli occhi.
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The Queen: Art and Image,
Edimburgo, National Gallery Complex, dal 25 giugno al 18 settembre. www.npg.org.uk

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