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Questo articolo è stato pubblicato il 24 luglio 2011 alle ore 08:15.

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L'abitare in territori di frontiera non custoditi da cortine di ferro comporta inevitabilmente sconfinamenti. E questo non vale solo per la topografia, ma anche per la teologia. Se vogliamo metterla in un'altra forma, possiamo dire che l'uso appassionato e reiterato del «para-dosso» conduce talora all'«etero-dosso», senza che però il pendolo non possa ritornare al punto di partenza. Vorrei proporre ora, in modo molto semplificato, due ritratti di uomini di frontiera, l'uno vicino a noi, tant'è vero che è morto nell'agosto di un anno fa in Spagna; l'altro remoto (eppur provocatoriamente inquietante anche oggi), contemporaneo di Dante, tant'è vero le sue date estreme sono vicine a quelle del grande poeta (1260-1327 ca.).
Partiamo, dunque, dal nostro contemporaneo, "meticcio" già nella sua genesi biologica, essendo figlio di madre catalana e di padre indiano, ma per tutta la vita cultore di un "meticciato" culturale e religioso dagli equilibri delicatissimi. Sto parlando di un originalissimo pensatore, Raimon Panikkar, del quale la Jaca Book ha da tempo avviato la sterminata raccolta dell'Opera omnia. Confessava, infatti: «Non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e per aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte che si può chiamare Spirito». Egli ha condotto la sua esistenza e la sua ricerca lungo un vero e proprio incrocio di frontiere spirituali: la cattolica, l'induista, la buddhista e la secolare, costruendo ponti, scavando tunnel, aprendo strade, attestandosi su sentieri d'altura ove si possono contemplare tutti i panorami, ma inoltrandosi anche in valli dai confini incerti.
Lo stesso dipanarsi del suo pensiero era un'insonne oscillazione tra generi diversi: dalla speculazione al simbolo, dall'analisi alla poetica, dalla documentazione all'intuizione, dalla filosofia alla mistica. Analogo era il dispiegarsi del suo arcobaleno tematico che si reggeva su un asse cristologico che, però, si ramificava lungo tutte le direzioni e i molteplici colori delle religioni fondamentali, la cristiana, l'ebrea, l'hindu e la cosmica. Arduo era averlo come compagno di viaggio teologico: era accaduto anche a me – che l'ho conosciuto e che mi ha considerato sempre con affetto – di trovarmi smarrito di fronte alla sequenza accelerata e febbrile dei suoi paesaggi teologici. Indimenticabile fu per me un dialogo pubblico con lui attorno a un libro così "fluido" com'è quello di Giobbe (san Girolamo lo comparava a un'anguilla o a una murena!) nel Duomo di Milano, davanti a un'immensa folla affascinata e frastornata al tempo stesso.
È per questo che, se si vuole disegnare un ritratto di Panikkar, la via più pertinente è quella adottata da un giornalista di grande finezza umana, spirituale e intellettuale, Raffaele Luise, che ha optato per il genere narrativo con due protagonisti essenziali, il maestro e il discepolo. L'incandescenza del pensiero di Raimon, infatti, difficilmente poteva essere coagulata nello stampo freddo della critica teologica perché ne deborderebbe continuamente. Il divino, l'umano e il cosmico non avevano in lui protocolli codificati e rigidi; le frontiere erano appunto dissolte da un'ermeneutica che tendeva a intrecciare non solo le religioni tra loro, ma anche le culture e le spiritualità, in una cristologia totale ma non riconducibile alla coerenza di un sistema.
Con Luise emerge, così, l'uomo Panikkar, credente appassionato, amico dolce, maestro di una sapienza orientale trascritta e fusa con l'occidentale. Penso che molti "laici" allergici ai discorsi religiosi resteranno sorpresi nello scoprire quanto seria, feconda e originale sia la ricerca spirituale, così come affiora da questa "storia" biografica. Certo, i teologi e i filosofi troveranno da eccepire, come anch'io mi imbarazzai quella sera e in altre occasioni di fronte al flusso di un pensiero tanto epifanico e "sconfinato" o "illimitato". Ma la sua interculturalità e interreligiosità rimangono un terreno ove ora ci ritroviamo necessariamente, pur coi piedi piantati nei rispettivi territori nativi.
Passiamo ora all'altro personaggio che ci costringe a una lunga navigazione a ritroso nel fiume della storia. Il suo nome era Johannes Eckhart, ma per tutti è rimasto sempre il Meister Eckhart. Anch'egli fu uomo delle frontiere, anzi affetto dal gusto di fissare lo sguardo negli abissi più vertiginosi. Dei suoi scritti altotedeschi e latini è traduttore in Italia uno studioso anch'egli amante dei "para-dossi", ossia delle tesi borderline (basti leggere la finale dell'introduzione al testo che stiamo presentando), Marco Vannini. A lui dobbiamo la versione del Libro delle parabole della Genesi, che offrì alcuni (ma non gli unici) materiali ai censori ecclesiastici di Eckhart, a partire dall'arcivescovo di Colonia. È curioso notare che alla fine egli fu condannato per alcune sue proposizioni "para-dossali" e fin "etero-dosse" in contumacia, una contumacia particolare perché egli era migrato verso la patria eterna almeno da un paio d'anni.
L'interesse di queste pagine, che si affacciano sul testo biblico della Genesi per svellerne «la scorza letterale» così che brilli «il senso più recondito», è di indole ermeneutica. L'intelligenza è la chiave che apre le Scritture; la ragione è lo strumento indispensabile per attraversare la corteccia e far rifulgere la verità di Dio celata nelle Scritture. Le "parabole" della Bibbia, quindi, devono essere sviscerate con la conoscenza filosofica (soprattutto tomista) perché svelino il loro frutto di luce. E qui il curatore si insedia per coinvolgere l'antico maestro medievale nella tesi a lui cara del primato dell'elaborazione filosofica classica rispetto al testo sacro basilare.

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