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Questo articolo è stato pubblicato il 24 luglio 2011 alle ore 08:14.

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Lo so che è difficile ammetterlo, ma è così e non si può che prenderne atto: nella nuova ondata dirompente di innovazione che sta travolgendo e riplasmando dalle fondamenta l'economia globale dei media, un ragazzino sveglio di 15 anni ha molta più alfabetizzazione tecnologica e molte più capacità di orientamento di tanti esperti più agée. E questo ormai non vale per i sessantenni, ma per i trentenni. Nick Bilton è il design integration editor del «New York Times», per il quale segue tutta la sperimentazione relativa alle nuove piattaforme mediali. È un trentenne, lavora da sempre in questo settore, e come lui stesso ammette ha provato, per dovere professionale e allo stesso tempo per passione, praticamente ogni gadget tecnologico progettato negli ultimi dieci anni per consentire l'accesso a una qualche forma di contenuti digitali sonori, visuali o testuali. Difficile non definirlo un esperto. Eppure, con grande onestà intellettuale, in questo suo libro, che prova a condurci per i meandri ancora in gran parte nebulosi della galassia mediatica del futuro prossimo venturo, Bilton ammette con franchezza che persino un punto di vista informato e privilegiato come il suo rischia di essere condizionato da una tara generazionale, da una logica socialmente appresa di uso dei media e delle loro possibilità espressive e comunicative che è stata già messa pesantemente in discussione da chi ha soltanto dieci o quindici anni di meno.
Siamo di fronte a una scala e a una velocità di cambiamento per la quale è difficile trovare analogie in altri settori, per non parlare di altri momenti storici. Si potrebbe pensare allora che il quadro tracciato da Bilton sia poco interessante, o datato, ma è vero esattamente il contrario: è una delle letture più intelligenti e stimolanti che siano disponibili oggi sull'argomento, e il motivo sta proprio nel fatto che il messaggio principale del libro è l'invito, ampiamente argomentato ed esemplificato, a rimettere completamente in gioco le nostre convinzioni, ad assumere un atteggiamento umile di osservazione e ascolto, senza pregiudizi. Una lezione che il mondo dei media attuale sembra ben lungi dal l'avere appreso.
Bilton stesso ne ha fatto le spese, in passato. In una intervista, aveva innocentemente ammesso di non aprire praticamente più la versione cartacea del «Times», e di seguirne esclusivamente la versione online, molto più ricca e articolata dal punto di vista dei contenuti, delle modalità di uso e soprattutto di condivisione. Questa sua candida ammissione aveva creato una vera e propria bufera che gli era quasi costata il posto. Una piccola vicenda personale che esemplifica molto bene un atteggiamento molto diffuso nel settore: quello di difendere lo status quo contro ogni evidenza, e di mettere sotto accusa l'evidenza nella misura in cui questa minacci troppo da vicino lo status quo. Bilton ci mostra chiaramente come le nuove generazioni stiano elaborando delle proprie modalità di accesso e di disseminazione dell'informazione che stravolgono i formati a cui siamo abituati: i testi, le notizie, i filmati, i suoni vengono spesso ridotti in piccolissimi frammenti, riassemblati, redistribuiti nelle modalità più varie.
Questo non vuol dire che le nuove generazioni non siano interessate ad accedere a materiali più articolati, ma piuttosto ciò avviene in un flusso di attenzione intermittente, e continuamente intervallato da intromissioni provenienti da altri canali. In altre parole, l'accesso ai contenuti delle ultime generazioni avviene all'insegna del multitasking: si legge un testo e nel frattempo si controlla la posta, si chatta con gli amici, si naviga su internet. Inutile ricordare come questa nuova fenomenologia dell'attenzione abbia prodotto pressoché istantaneamente una letteratura catastrofista che preconizza l'avvento di una generazione con (ça va sans dire) seri deficit di attenzione, se non addirittura istupidita da questa specie di macedonia mediale che sembra triturare e omogeneizzare tutto.
Ma Bilton, facendo riferimento alla letteratura scientifica sull'argomento, mostra che questo allarmismo è sostanzialmente ingiustificato, e non è in fin dei conti molto diverso da quello degli autorevoli scienziati del tempo che denunciavano il pericolo derivante dal viaggiare in treno per il corpo umano, che una volta lanciato alla folle velocità di sessanta o settanta chilometri all'ora avrebbe potuto addirittura disintegrarsi.
Gli stessi videogiochi, oggi tanto spesso criminalizzati da chi non ne ha mai avuto esperienza diretta o lo ha fatto dietro una pesante coltre di pregiudizio, possono in realtà aprire nuove, entusiasmanti prospettive per la sperimentazione formativa, ma perché ciò accada occorre ancora una volta capire che non c'è un modo "giusto" di accedere a determinati contenuti, ma soltanto una quantità di modi che dipendono dalla storia personale e sociale, dai percorsi di apprendimento che hanno plasmato le nostre categorie cognitive, dalle inclinazioni e dalle passioni personali. Il vero problema sta, purtroppo, nel fatto che molti dei decisori che hanno oggi voce in capitolo sui futuri scenari di evoluzione dell'economia dei media sono persone che si sono formate in un mondo ormai obsoleto, che ragionano sulla base di categorie superate, e che si ostinano a immaginare strategie di contenimento e di contrasto delle nuove tendenze sociali in atto piuttosto che impegnarsi nello sviluppare strategie capaci di cogliere il nuovo panorama di opportunità, che finirebbero però per scuotere nel profondo le proprie convinzioni.

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