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Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2011 alle ore 08:16.

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Leggere La cultura dell'innovazione in Italia. Rapporto 2011, a cura di Wired e Cotec - Fondazione per l'innovazione tecnologica, è un'esperienza surreale. L'Italia è forse l'unico Paese al mondo dove si può scrivere un rapporto, prodotto da enti che dovrebbero promuovere l'innovazione, che valorizza "scientificamente", nel senso che considera quale risorsa conoscitiva per le scelte pubbliche, le avversioni soggettive al rischio basate sulle risposte emotive e le paure ispirate da vicende terrificanti. Dove, cioè, si sostiene che dietro l'avversione degli italiani per il nucleare o per gli ogm c'è in realtà un tipo di valutazione dei rischi che è sì basato sulle emozioni, ma che proprio grazie al ruolo euristico che giocano le emozioni riesce a cogliere nelle innovazioni rischi che gli esperti, per limitazioni cognitive intrinseche non sanno riconoscere. Quindi, noi italiani pratichiamo una cultura populista (?) dell'innovazione che, ci fanno capire gli estensori del rapporto, è molto più avanzata di quella che si cerca di costruire nei Paesi dove le valutazioni dei rischi pur tenendo contro dei fattori soggettivi, non ne celebrano la superiorità "scientifica" e morale. Anzi, le conoscenze sui meccanismi soggettivi e di socializzazione del rischio vengono di solito usate per migliorare le strategie comunicative e combattere le paure. Che non sono certo più giudicabili "irrazionali", perché hanno una loro ragionevolezza, ma che comunque si basano sul rifiuto di prendere in considerazione informazioni magari irrilevanti sul piano delle scelte immediate, ma decisive per lo sviluppo economico di un Paese e quindi per la qualità della vita delle future generazioni.
Da quando gli psicologi e i neuroscienziati hanno dimostrato che le emozioni sono alla base delle nostre decisioni e che le scelte intuitive, basate cioè su preferenze soggettive nell'uso dell'informazione o sulla semplice euristica del riconoscimento, producono risultati praticamente equivalenti a quelli che utilizzano maggiori informazioni e complessi algoritmi, è un'apoteosi delle emozioni. Questo significa che le emozioni sono utili, ma non implica che devono diventare il criterio privilegiato, in assoluto, per prendere decisioni. Ma si dà il caso che le emozioni che usiamo siano state cablate nel nostro cervello durante la lotta per la sopravvivenza nella savana del Pleistocene, e ne siamo dotati perché era vantaggioso essere avversi ai rischi in mancanza di qualunque conoscenza utile per stabilire se si trattava di un rischio reale o immaginario. Con la rivoluzione scientifica, quando si è cioè cominciato a usare il metodo sperimentale per ridurre le incertezze anche a livello di decisioni di portata generale – lasciando che le euristiche spontanee svolgessero il loro compito nelle decisioni più immediate – è diventato possibile prevedere e prevenire, in modo calcolato, i rischi. In rapporto ai benefici, ovviamente. È merito anche di questo approccio se quasi il reddito annuo procapite su scala globale, che dal tardo neolitico fino al 1750 era solo raddoppiato (da 80 a 180$), nei successivi 250 anni è schizzato a 7.000 dollari.
La cultura generale italiana sta diventando sempre più avversa alla logica della crescita economica. Forse è il caso di prendere atto che siamo un Paese a cui non piace l'innovazione e lo sviluppo industriale. Torniamo pure all'età preindustriale. E continuiamo a consumare le innovazioni prodotte nei Paesi dove si promuove l'istruzione scientifica e quindi si pratica una diversa cultura del rischio. Ma, per favore, evitiamo di raccontare in giro che lo facciamo grazie a una sorta di sapienza intuitivo-emotiva popolare, superiore nelle sue capacità previsionali alle valutazioni basate su informazioni scientificamente pertinenti.
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http://www.cotec.it/it/wp-content/uploads/2011/06/cultura_innovazione_2011.pdf

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