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Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2011 alle ore 17:00.

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La giovane pianista giapponese Hiromi UeharaLa giovane pianista giapponese Hiromi Uehara

Le promesse si mantengono.Tanto più che questo mio impegno risale a una pubblica dichiarazione dello scorso maggio nell'incanto del Teatro Olimpico di Vicenza e riguarda la giovane pianista giapponese Hiromi Uehara, nata 32 anni fa a Shizuoka, sulla quale fervono discussioni piuttosto accanite non da oggi.

Sapevo che il suo tour europeo di quest'estate mi avrebbe dato la possibilità di ascoltarla quattro volte (a Vicenza, Lugano, Perugia e pochi giorni fa al Festival di Fano, in trio con Anthony Jackson basso elettrico e Simon Phillips batteria). L'occasione era ghiotta, quindi, per farmi un'idea precisa sul suo valore, da molti celebrato con lodi insolite, e darne relazione.

Si premettono alcune note biografiche per chi la conoscesse poco. Hiromi - così si chiama per il mondo della musica - inizia lo studio del pianoforte a otto anni, quindi un po' tardi, ma brucia le tappe: a 12 anni tiene il suo primo concerto in pubblico e a 14 suona a Praga con l'Orchestra Filarmonica Ceca nel momento in cui i Boemi si separano consensualmente e pacificamente dagli Slovacchi.

L'educazione pianistica è quindi classica, ma a Hiromi piace il jazz e lo pratica. A 17 anni incontra a Tokio Chick Corea che la ascolta con molto interesse e la fa suonare con lui in concerto. Questo successo è per lei fondamentale. Nel 1999 decide di iscriversi alla famosa Berklee School of Music di Boston e nel 2003 si diploma con il massimo dei voti. Qui conosce il pianista Ahmad Jamal, più anziano di lei di mezzo secolo, che diventa il suo mèntore e tesse le lodi di Hiromi anche a chi non le vuole sentire.

L'avvenire è assicurato. Cominciano i dischi - fino a oggi sono dieci, ivi compreso un extended play di esordio intitolato XYZ- le tournée, le dichiarazioni a giornalisti musicali più o meno improvvisati. Sentite questa: «Io amo Bach, Oscar Peterson, Liszt, Ahmad Jamal, Sly & Family Stone, Dream Theater e King Crimson. In termini di energia traggo ispirazione anche da grandi uomini sportivi quali Carl Lewis e Michael Jordan». Ora, le citazioni musicali "globali" vanno benissimo. Ma fanno impressione Lewis e Jordan, perché proprio con loro si entra nel cuore del problema Hiromi.

Mi si permetta un'autocitazione: «La pianista nipponica, cosa nient'affatto rara dalle sue parti, ha tecnica, tocco, diteggiatura e indipendenza delle mani fenomenali (le mani sono stupende, detto per inciso). Ed è irruente al punto da raddoppiare, o quasi, la durata della Rhapsody in Blue di George Gershwin approfittando dei due settori solistici che la partitura concede, e da trasformare la parte in solo del suo concerto in una serie di cavalcate frenetiche, salvo un paio di pezzi lenti nei quali, finalmente, sembra di percepire emozione».

Di Lugano ricordo soprattutto il primo pezzo suonato a velocità spaventosa, forse per istituire un impossibile confronto con la grande Martha Argerich che prima di lei si era cimentata con un bel programma di tangos, interpretati come se nella vita non avesse mai fatto altro. Meglio a Vicenza che a Lugano, dunque; e meglio a Lugano che a Perugia, la cui Arena Santa Giuliana è poco adatta ai piccoli complessi.

Ma è a Fano che si è avuta la prova ultima che i concerti di Hiromi, con l'ovvia acquiescenza dei due eccellenti sodali al basso e alla batteria, sono finalizzati alla dimostrazione della straordinaria bravura formale della protagonista. Perfino i brani lenti, che sono occasioni buone per "lasciarsi andare", come si dice, virano all'improvviso in suoni ribattuti e in riccioli di note fulminee che strappano facili ovazioni.

È un peccato, con i mezzi che ha Hiromi. Ma, per parafrasare Manzoni, se uno il sentimento non ce l'ha (o non lo vuole avere, ndr), non se lo può dare. Però Hiromi lasci perdere, almeno, l'Adagio della Piano Sonata n.23 "Appassionata" di Beethoven e le variazioni di cui le farcisce. Queste cose, è vero, le faceva anche il sommo Friedrich Gulda, ma ogni paragone è assurdo. Gulda non rischiava che "il caro Ludwig van", come lo chiama Malcolm McDowell nell'Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, gli scagliasse un fulmine dalla nuvoletta in cui adesso si trova. Ma Hiromi sì, eccome.

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