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Questo articolo è stato pubblicato il 07 agosto 2011 alle ore 08:15.

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Gianfranco Miglio, classe 1918, politologo o, meglio, scienziato della politica come diceva lui, amava sorprendere e lo faceva servendosi di affermazioni nette, uno dei motivi di tanta irritazione nei suoi confronti. «Provocatoria» e «sospetta» si diceva di ogni sua tesi. E così accadde a fine ottobre 1988, nell'aula Pio XI dell'Università Cattolica al termine del convegno «Multiformità e unità della politica», organizzato per festeggiare i settant'anni del professore. Miglio – mentre l'Italia era guidata dal pentapartito di Ciriaco De Mita, secondo di quattro governi della decima legislatura – ipotizzava per il Paese un futuro da «Repubblica Mediterranea». Era qualcosa di più di un pensiero, «ho la convinzione che a comandare non possano essere le prescrizioni astratte, ma le persone concrete in grado di farsi obbedire e che quindi ogni individuo, in linea di fatto, non sia soggetto alla legge, ma a questo o a quel "protettore" più o meno potente». «Ci vuole un coraggio da leoni per immaginare una Costituzione di tipo mediterraneo, cioè più politica che di diritto. Io l'ho». Un'anticipazione dell'imminente discesa in campo di Berlusconi e del successivo ventennio? Può darsi. Certo, erano appena passati cinque anni dalle proposte di riforma costituzionale avanzate dal «Gruppo di Milano» guidato proprio da lui. I partiti parlavano e facevano resistenza, il professore era già più avanti, rifletteva sulle «regolarità» dei comportamenti italiani che non avrebbero mai sottoscritto quella riforma. Le idee devono fare i conti con i costumi e la tradizione di un popolo. Ancora oggi la riforma aspetta tra riemergenti chiacchiericci.
Alchemico, cinico, spregiudicato, irriverente, così appariva il professore; l'aspetto, il portamento, la parola confermavano ogni impressione. E il suo studio le avvalorava ancora di più: sempre in penombra, austero, una sequenza di stampe alle pareti con i ritratti di Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Sieyès, Schmitt; una piccola biblioteca con i classici, due poltrone per le conversazioni accanto alla finestra. Tutto avvolto da un grande silenzio, reso inviolabile dalle profonde mura dell'ex monastero disegnato dal Bramante a fine Quattrocento. Qui e nella sua casa in riva al lago di Como nascevano le «Lezioni di politica pura», l'ambiziosa meta intellettuale. In vita non hanno preso forma definitiva; oggi, a dieci anni dalla morte (10 agosto 2001), il Mulino pubblica due volumi di ampio respiro che raccolgono le lezioni di Storia delle dottrine politiche e le intriganti lezioni di Scienza della politica dove più alto è l'apporto originale e teorico di Miglio. Di lui ebbe a dire Nicola Matteucci: «Miglio non ha incontrato molti favori nell'accademia, ma, per vie sottili, la sua presenza ha avuto un peso incisivo e vasto nella cultura italiana. In lui si ritrova una filosofia politica, cioè un autentico pensiero».
Non è difficile capire l'architettura di Miglio sorretta da tre colonne portanti: il diritto che accompagna l'avvio accademico con Alessandro Passerin d'Entrève e Giorgio Balladore, poi la storia delle istituzioni con le complesse dinamiche (su questo fronte avviò e animò la Fondazione per la storia amministrativa), infine il pensiero politico avviato con lo studio, tra i primi in Italia, di Max Weber di Economia e società. Al positivismo nella ricerca storica, affianca il realismo nell'approccio a ideologie e pensiero politico. Per primo portò in Italia, con la collaborazione di Pierangelo Schiera, Le categorie del «Politico» di Schmitt (il Mulino, 1979) quando lo studioso tedesco era ostracizzato e all'indice; poi provvederanno Adelphi e i ripensamenti di una certa sinistra a sdoganarlo e trasformarlo in un classico. Norberto Bobbio scrisse, dopo l'uscita del volume, che con quegli scritti «Miglio aveva destabilizzato la sinistra italiana». Per rafforzare le sue ipotesi Miglio inaugurò e diresse da Giuffrè la collana Arcana imperii, un'iniziativa che ha restituito agli studiosi opere importanti ma dimenticate (più di trenta volumi con testi di Julien Freund, Sieyes, Gabriel Naudé, Robert Michels, Halifax, Richelieu, Carl Schmitt) e studi ed esplorazioni originali sui concetti di corporazione e di interesse curati da Lorenzo Ornaghi.
Non è un caso che da tempo si stanno ripubblicando i saggi di Miglio. L'iniziativa del Mulino – realizzata su invito del figlio Leo, grazie alla disponibilità delle registrazioni magnetofoniche del corso accademico 1981-82 fatte e conservate da Stefano Talamini, e alla cura di Davide G. Bianchi e di Alessandro Vitale – consente di capire meglio nei suoi molteplici interessi il politologo, di coglierne il metodo e soprattutto di fare i conti con intuizioni, scoperte, suggestioni, tesi, abbozzi di ipotesi, azzardi intellettuali che meritano d'essere esplorati. La determinazione di arrivare a delle «Lezioni di politica pura» svela una cura ingegneristica nella ricerca dei fondamentali (le cosiddette "regolarità") perché ogni costruzione umana poggia su equilibri, materiali differenti, convinzioni, consuetudini. Capire significa disporre di un'ampiezza di conoscenze che vanno dalla biologia alla morale, dall'etologia alla psicologia oltre alla filosofia, al diritto e alla storia. Il professore si serviva di tutto: utilizzava a piene mani gli storici (che con affetto chiamava i «carriolanti» del politologo), non disdegnava la modellistica dell'amico-rivale Giovanni Sartori, anche se la riteneva fragile. Miglio preferiva ragionare sui concetti di obbligazione politica, di contratto-scambio, di aggressione, di amicus-hostis, di rappresentanza, di genealogia del l'ideologia, di rendita politica, di fenomenologia dell'aiutantato. Ovvero di tutto ciò che sorregge l'impalcatura dei sistemi con i loro corollari di anti-realtà e di finzioni come definiva l'eguaglianza, la libertà, la pace.

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