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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2011 alle ore 08:14.

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Il bello e felicemente spiazzante libro di Igiaba Scego La mia casa è dove sono, tra diario interculturale e memoir di formazione, ci permette di fare una più meditata riflessione sui cosiddetti «migrant writers» e, inoltre, di cominciare a decostruire la stucchevole retorica delle "radici".
La realtà della «letteratura migrante» nasce da noi intorno al 1990, in ritardo rispetto ad altri Paesi (felix culpa, dato che non disponiamo di un importante passato coloniale, benché, come qui si ricorda, anche gli italiani abbiano ucciso, depredato e umiliato «i popoli con cui sono venuti in contatto»). Dopo una fase pionieristica, in cui prevaleva l'aspetto del documento antropologico, della testimonianza e della denuncia, i romanzi migranti (o "italofoni": tutte etichette più o meno imprecise) hanno acquisito piena maturità letteraria, esibendo una qualità stilistico-espressiva di assoluto rilievo (cito solamente Ornela Vorspi, Cristina Ali Farah, e il poeta Gezim Hajdari). E, forse contagiati da una italianissima tradizione tendono a preferire i toni più leggeri della commedia e dell'autoironia (Ahmara Lakous, Laila Wadia, Ingy Mubiayi, Igiaba Scego) a quelli del lamento e della protesta civile.
La letteratura migrante, scritta in una lingua diversa dalla madre lingua, abbraccia in Italia, secondo l'ultimo censimento, oltre 400 autori. Ma è giusto continuare a parlarne come di un fenomeno a parte, un genere o sottogenere letterario, cui riservare collane, saggi e premi letterari specifici? O, peggio, proiettare sui migranti un nostro bisogno di risarcimento, assumendoli come figure di resistenza e utopia o magari chiedendogli di rivitalizzare – con i loro creativi scarti dalla norma – la nostra lingua burocratico-televisiva? Occorre cambiare prospettiva. Come sottolinea Armando Gnisci, che ne è il principale studioso, siamo entrati tutti in un orizzonte migratorio planetario (a partire dalla Grande Migrazione degli anni 80), che ridefinisce lingue, culture, codici, identità. E tutti ci muoviamo entro una letteratura globale. In un certo senso oggi qualsiasi scrittore, a qualsiasi latitudine, si sente un po' sradicato dalla propria tradizione (gli italiani capiscono i loro classici con sempre più difficoltà) e un po' migrante. Nessuno è assolutamente "immobile" o "autoctono".
A un certo punto la Scego, nata a Roma nel 1974 da un ex ministro degli Esteri somalo in esilio, dice di sentirsi un «crocevia», «uno svincolo», sospesa tra due Paesi e due lingue: all'inizio impara l'italiano, mentre il somalo è riservato a fiabe (prevalentemente splatter) e filastrocche, è insomma l'idioma dei cantastorie. A piazza Santa Maria della Minerva la statua dell'elefantino africano, lontano dal luogo natio, confonde tutte le certezze di Igiaba, con la sua angoscia dell'esule e il desiderio di storie che possano redimerlo. Quando muoiono in mare 13 somali, per il naufragio di un barcone, il funerale viene celebrato in Campidoglio. Ma lei nota che sarebbe stata più adatta la stazione Termini, nello spiazzo tra biglietteria, negozio della Nike e libreria Borri, l'unico luogo (o non-luogo) che a Roma ha accolto fraternamente i somali. Il libro si presenta come l'autobiografia di un io preso nella diaspora, sempre in bilico tra mondi diversi, una specie di toponomastica della memoria, scandito da molteplici tappe che corrispondono ad altrettante piazze e strade e monumenti romani. Il gusto narrativo dell'autrice si libera gioiosamente, più e meglio che in un romanzo. Ci racconta di quando la "fede" romanista, vissuta con vera competenza calcistica, la salvò dal l'ansia per la provvisoria scomparsa della madre a Mogadiscio; e di quando scoprì che avere l'Africa dentro «è come toccare i piedi degli arcangeli»; e ancora di come si sentì amata «in egual misura» da due lingue madri... A un certo punto troviamo poi una pagina abbagliante, quasi di urbanistica metafisica, che rievoca la stele di Axum, entro la piazza da cui è stata prelevata: «Oggi in quel posto non c'è niente. C'è il nulla. Avanzo cieca in questo abisso. Le macchine per non perdersi d'animo fanno un girotondo intorno a quel vuoto...». Girando intorno a quel vuoto ciascuno di noi, nel presente dell'esodo planetario, si costruisce la propria identità sempre più meticcia, composta di frammenti e pulviscoli dispersi. Benché con vissuti diversi, e anche con un tasso di sofferenza e disagio personale sensibilmente diverso (chi proviene da un altro Paese si percepisce "alieno" e incontra difficoltà assai maggiori), oggi siamo tutti, almeno culturalmente, "pellegrini". Così dice Virgilio alle anime spaesate appena sbarcate sulla spiaggia del Purgatorio: «(...) voi credete forse che siamo esperti d'esto loco; / ma noi siam peregrini come voi siete».
Come ci ricorda il titolo del libro la mia casa è esattamente lì dove mi trovo: le stesse "radici", di cui tanto si blatera, non hanno a che fare con il sangue e il suolo, con il territorio e le origini, ma sono il risultato di una scelta culturale: una costruzione più o meno consapevole dell'immaginario (vedi Edward Said). Potremmo replicare, lievemente parafrasandola, la suggestiva dedica della Scego: «Alla Somalia, dovunque essa sia». Nel senso che a quella esperienza oggi pervasiva di sradicamento e di esilio corrisponde pur sempre in ciascuno di noi la nostalgia di una patria ideale, che però ogni giorno dobbiamo reinventare e ricreare, «dovunque essa sia».
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Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano, pagg. 168, € 16,50

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