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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2011 alle ore 08:16.

Le società tradizionali, proprio perché ancorate a valori e riferimenti costanti, favorivano una integrazione automatica (e coatta) dell'individuo nella società. Il ruolo di tutti e ciascuno è ben definito, fissato una volta per tutte. Inevitabile che la fine di quel mondo lasci sul terreno traumi e disadattamenti.
Come ricordava Sebastiano Maffettone sul Domenicale del 31 luglio Pier Paolo Pasolini è stato il cantore dolente, a volte disperato, del passaggio dal mondo contadino a quello urbano – mentre la dimensione prettamente industriale del mondo urbano gli era sostanzialmente estranea: Pasolini "vedeva" le borgate romane non le coree milanesi, "sentiva" l'intercalare stracco dei bar di periferia non il rumore meccanico e metallico delle officine. Quel passaggio è però un'archeologia del tempo presente. Già al tempo di Pasolini la nostalgia per gli ultimi, idealizzati, bagliori di una società agreste, e per la perdita di certezze radicate nella solidità propria della terra e dei suoi rapporti codificati, aveva un sapore retrò. Oggi il mondo rurale si è trasformato in aziende efficienti e moderne, paradisi agrituristici, raffinati coltivatori biodinamici, cultori di "madre terra". E non c'è più nemmeno il mondo industriale, ancora vivo e pulsante ai tempi della maturità del poeta. Le grandi fabbriche, le tute blu, l'operaio massa, sono scomparsi. Proprio quando Pasolini viene ucciso si compie un altro passaggio epocale, quello dalla società industriale moderna a quella post-industriale e post-moderna. Questo processo si è ormai concluso a forza di delocalizzazioni, multinazionalizzazioni in sedicesimo, riduzione della forza lavoro, diversificazione delle mansioni, parcellizzazioni, filiere corte e lunghe. E anche la crisi in atto non ne cambia i paradigmi.
La trasformazione post-industriale ha "liquefatto" – per dirla con Zygmut Baumnan – la società italiana. Gli attori sociali navigano ormai in uno spazio/tempo dilatato e indistinto. In particolare è il rapporto con il lavoro, un tempo così centrale nel forgiare l'identità dell'individuo e il suo ruolo nella società e nella politica, che ha perso la sua forza evocativa e simbolica. Non esiste più un lavoro uguale all'altro, non si svolgono più le stesse mansioni, nello stesso luogo, per tutta la vita. Chi entrava in una fabbrica o in un ufficio non si spostava più per il resto dei suoi giorni. La mobilità, laddove non obbligata, era considerata un indicatore preoccupante di irrequietezza. Quante volte il neoassunto si sentiva dire che era entrato in una grande famiglia, con il presupposto implicito che le famiglie le lasciano solo gli scapestrati. Insomma, anche il mondo della chiave a stella, oltre a quello degli zoccoli e delle lucciole, si è dissolto, disperso in mille rivoli. E questo perché la società post-industriale implica identità poliedriche e cangianti, flessibili e à la carte. Per alcuni questo cambiamento apre orizzonti nuovi, praterie da conquistare, opportunità infinite. Un mondo dove trionfi la realizzazione del sé e delle proprie potenzialità, scardinando fedeltà e rigidità tradizionali, non può che esaltare gli spiriti innovatori e dinamici. Ma, allo stesso tempo, quello che riluce di speranza per alcuni, proietta ombre minacciose per altri. Mentre la deflagrazione del vecchio ordine esalta i best fitted, spaventa i meno dotati. Le avanguardie di questo cambiamento epocale di tutto l'Occidente provenivano dalla generazione dei baby-boomers. È in questo gruppo che Ronald Inglehart individuò i portabandiera della "rivoluzione silenziosa" in atto nei primi anni settanta tra valori "materiali e acquisitivi (ordine, sicurezza, stabilità) e valori "post-materialiti" (partecipazione, qualità della vita, eguaglianza su tutti i piani). La generazione del dopoguerra, pur ingrigendosi, è rimasta fedele al suo imprinting post-materialista. Ma non ha trascinato con sé il resto della popolazione: soprattutto in Italia la ricezione dei valori di autodeterminazione e liberazione è molto più flebile rispetto agli altri Paesi (basti pensare ai recenti trionfi elettorali dei Verdi in Germania). Questa debolezza si connette con la persistenza di sentimenti acquisitivi legati al possesso e alla sicurezza che vengono da lontano, dalla rocciosità del "familismo amorale", da un individualismo sregolato in quanto insofferente di ogni norma altra da sé, dalla secolare esperienza di fame e miseria, dall'impotenza rispetto all'arbitrio.
La "liquefazione" della società non offre però solo un versante solare e post-materiale, bensì innesca anche una reazione uguale e contraria di stampo acquisitivo. Nel nostro Paese questa reazione ha assunto due volti: uno vincente, incarnato da coloro che grazie alle loro risorse personali (culturali, sociali, economiche e relazionali) ha saputo trarre vantaggi dal cambiamento, e l'altro incarnato dai "perdenti della globalizzazione" che ne hanno subito l'impatto sul piano economico e sociale. I vincenti si ritrovano in fitte schiere tra i "piccoli" e le partite Iva del lavoro autonomo e imprenditoriale: ceti medi in ascesa che hanno trovato nell'acquisizione di un reddito e di uno status la loro realizzazione, e che in tal modo hanno dato la loro risposta "materialista" all'irruzione della società post-industriale. Questo gruppo sociale costituisce il vero contraltare ai post-materialisti della sinistra libertaria. Poi vi sono i perdenti, gli occupati in attività dalle qualifiche medio-basse e con ridotto "capitale personale" che scontano la diminuzione del loro ruolo sociale attraverso il depauperamento simbolico oltre che remunerativo del lavoro. Per loro la "liquefazione" della società è traumatica.

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