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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2011 alle ore 08:17.

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Quanti gradi di separazione dividono la rinascimentale Loggia dei Mercanti di Monte San Savino, borgo della Val di Chiana oggi famoso soprattutto per la sua prelibata porchetta, dal 420 di West Broadway a New York? A sorpresa uno solo, e non sei, come insegnano il film omonimo e la frettolosa condensazione della teoria dello Small World di Michael Gurevich e Stanley Milgram. Il nome? Leo Castelli.
Difficile sospettarlo prima di aver letto l'appassionante biografia scritta da Annie Cohen-Solal, la storica che dal 1989, quando arriva negli Stati Uniti come consigliere culturale dell'Ambasciata di Francia, entra a far parte della brillante, colta, estrosa famiglia allargata di colui che aveva creato dal nulla il mercato globale dell'arte americana. Si frequentano fino alla morte di Leo, nel 1999, e in quei dieci anni lui, con l'elegante svagatezza di sempre, risponde alle sue mille domande, illuminando con aneddoti brillanti ciò che gli sta a cuore ed eludendo invece gli argomenti sgraditi, lasciando però cadere piccoli indizi, come semi pronti a germogliare. Così, quella che avrebbe potuto essere l'avvincente biografia di un personaggio fuori del comune – un rampollo racé della Trieste ebraica d'inizio '900, gran ballerino e infallibile charmeur ma caparbiamente nullafacente fino ai 50 anni, poi diventato a New York il più influente gallerista al mondo – si è trasformata in un grandioso, avvincente affresco storico che dal tardo Rinascimento arriva fino alle soglie del Duemila. Non senza aver attraversato l'intera Europa negli anni feroci delle due guerre e delle persecuzioni contro gli ebrei.
Ebreo lui lo era, per parte di padre e di madre: Ernesto Krausz il padre, ungherese trapiantato a Trieste, nel ricco porto del l'Impero, dove diventò il direttore della locale Banca Commerciale; arbitro dunque di affari milionari, con Assicurazioni Generali e Ras, armatori come i Cosulich e l'impresa colossale del Canale di Suez. Bianca Castelli la madre, figlia bruttina e noiosa di un ricco imprenditore triestino: il grimaldello, per il provinciale Krausz, per aprire le porte dei salotti locali. Leo ne prenderà il nome di famiglia quando la legge imporrà di italianizzare i cognomi stranieri. Chi fossero i Castelli l'autrice lo scopre seguendo l'indizio-principe lasciato cadere da Leo: Monte San Savino. E lì, dall'archivio del borgo toscano, inizia la saga che segue i Castelli da quando vi giungono, nel '500, e avviano dalla Loggia dei Mercanti un solido commercio, fino a che nel 1799 vengono cacciati con i correligionari. Ridotti in miseria, riparano a Trieste, resa da Maria Teresa d'Austria un accogliente rifugio per la «Nazione ebraica». E qui un colpo di scena cambierà la vita di Aronne Castelli, scaricatore di porto: vinta la lotteria, vivrà come un principe, ribaltando di nuovo le sorti della famiglia.
Di qui in poi l'autrice si lancia su innumerevoli piste, sulle tracce dei due rami della famiglia, forte di una bibliografia impressionante, di mille viaggi e di meticolose indagini d'archivio. Ne scaturisce un arazzo variegato, dal quale emerge però la costante di quel fiuto che accompagna lungo i secoli i Castelli-Krausz, sempre presenti là dove «si fa la storia»: in Toscana nel Rinascimento; nell'800 nella ricca e colta Trieste; durante la Grande guerra nella Vienna magnifica della Secessione e poi di nuovo a Trieste.
È ora che entra in scena Leo: nato nel 1907, studente svogliato ma avido lettore della migliore letteratura (sempre in lingua originale: padroneggia francese e inglese grazie alle istitutrici; tedesco e ungherese grazie ai Krausz, oltre all'italiano), viene assunto alle Generali per i buoni uffici del padre, ultimo suo gesto prima di soccombere alle leggi razziali. Anche per Leo si compirà lo stesso destino: essere al posto giusto nel momento giusto. E saper sfruttare le opportunità. Le Generali lo mandano a Bucarest, città stimolante e cosmopolita, ancora attraversata dai fremiti del dadaismo, e lì impalma Ileana Schapira, figlia di un magnate delle ferrovie. Grazie a lui, giunti a Parigi (la Parigi del surrealismo), potrà aprire una galleria d'arte. E pazienza se l'inaugurerà nel luglio 1939, mentre la guerra sta scoppiando, perché con quell'unica mostra si farà un nome. Soprattutto grazie al suocero scamperà ai nazisti, in Costa Azzurra prima, poi negli Stati Uniti, vivendo sempre da gran signore malgrado sia – secondo papà Schapira – «un vero buono a nulla».
Non che il tycoon avesse tutti i torti: non solo Leo non lavora ma, fascinoso e sensuale com'è, è un inguaribile sottaniere. A dire il vero è anche un formidabile ballerino di tango e un gran conversatore, ma nulla di più. Intanto però, fra un party e una vacanza agli Hamptons, passa le giornate al Moma: studia, si informa, si forma. E capisce che il nuovo rinascimento è lì, a New York, la città che per lui è da sempre un «polo magnetico».
Conosciuto il mercante Sidney Janis, gli suggerisce finezze europee e strategie vincenti. Tempo qualche anno e, dopo aver organizzato per lui mostre di gran successo (come quella che accosta i maestri francesi agli emergenti americani: Pollock, de Kooning, Kline, Rothko...) e dopo aver conquistato la fiducia del mitico direttore del Moma Alfred H.Barr e della vorace vedova di Kandinsky, nel 1958 apre una galleria, su uptown, nell'appartamento del palazzo degli Schapira che ancora divide con Ileana (lei, già innamorata di Michael Sonnabend, lo sposerà presto, rimanendo però la più fedele amica e socia in affari di Leo). Esordisce con Jasper Johns, artista agli antipodi della violenza gestuale dell'Action Painting al tempo dominante, eppure è subito un successo formidabile. Da allora fino alla morte, dal 420 West Broadway, Castelli sarà l'arbitro del mercato mondiale dell'arte nuova americana, muovendosi da grande tessitore di alleanze (con Ileana riesce a far premiare Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964) e da incantatore di collezionisti (inventa la tecnica della lista d'attesa per le opere, mettendo in stand by gente abituata a spostare milioni di dollari in un istante) ma, soprattutto, restando un incrollabile sostenitore degli artisti, ai quali passa un mensile anche se non vendono (Jasper Johns e Roy Lichtenstein glielo consentono) e un gallerista che sa radicare i suoi giovani protetti nella storia, forte com'è di quella cultura che lo porta, ogni sera prima di addormentarsi, a leggere qualche pagina di Proust. In francese naturalmente.

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