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Questo articolo è stato pubblicato il 04 settembre 2011 alle ore 08:15.

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Sebbene documenti scientifici nazionali e internazionali, prodotti da commissioni ad hoc e da prestigiose istituzioni, dichiarino concordemente che alimentazione e idratazione di pazienti in stato vegetativo permanente siano trattamenti medici, in Italia si resiste tenacemente al dato scientifico e si preferisce ribadire il valore simbolico dell'alimentazione e dell'idratazione, in modo da rendere normativo e vincolante il precetto morale solidaristico del dar da mangiare agli affamati e del dar da bere agli assetati. Tale ragionamento appare chiaramente viziato da una fallacia (sarei propenso a rubricarlo come un caso di fallacia della falsa analogia), ma quello che è più grave è che in pochi, da noi, ne ammetterebbero l'invalidità. Perché? Perché nei nostri sistemi educativi non è adeguatamente impartita una forma mentis scientifica, che faccia con naturalezza pensare le cose in modo oggettivo e le faccia prima di tutto confrontare con le evidenze; perché troppo spesso si predicano umanità e solidarietà come fossero dei correttivi alla scienza, alla quale si negano "pensiero" e valori (si nega valore anche alla verità); perché anche i più elementari requisiti del ragionamento logico vengono sviliti di fronte ai "poteri" inventivi del linguaggio e alla "illogicità" delle emozioni, di fronte alla persuasività della retorica o all'"altra" verità della rivelazione.
Ecco perché sono un po' preoccupato dalla pur sacrosanta rivendicazione del valore formativo (e del significato per la civiltà) delle Humanities che oggi ci viene soprattutto dal mondo anglofono. George Steiner (I libri che non ho scritto, Garzanti) rimpiange i tempi in cui era ancora la memoria la madre delle Muse, e predica una rinascita delle arti del trivio e del quadrivio, con la musica, che è tutt'uno con la matematica, a educare le menti ad attività senza fini utilitaristici. Martha Nussbaum (Non per profitto, il Mulino), partendo dalle stesse preoccupazioni per «la crisi mondiale dell'istruzione», ci dice che senza humanae litterae non c'è democrazia, perché non c'è possibilità di pensare criticamente e non "localisticamente", e perché non si hanno gli strumenti per raffigurarsi simpateticamente l'"altro" e per cogliere la complessità del mondo.
Credo che nel nostro Paese, dove allignano soprattutto santi e poeti (oltre ai marinai), più d'uno gioisca. Avete visto? Anche dal mondo angloamericano, quello "tecnologico" per antonomasia, vengono segnali di inquietudine di fronte alla hybris scientifica e alla carenza di umanesimo e di spiritualità. Intendiamoci: se si tratta di riformare l'istruzione e di restituire dignità all'"alta" cultura di fronte alle truffe delle "scienze umane" e di quelle discipline da banausici oggi tanto coltivate e che stanno alla filosofia, alla filologia e alla storia come la computisteria sta alla matematica, mi unisco al gaudio. Ma se si tratta, ancora una volta, di brandire la cultura umanistica contro la scienza (è quello che talvolta fanno da noi le Medical Humanities contro la biomedicina, per esempio), allora mi vien fatto di dire alla Nussbaum che l'umanesimo per la democrazia non basta; e mi verrebbe anche voglia di provocarla ricordandole che poi in fondo Pol Pot leggeva Rousseau e Sartre, e che il neonazista della recente strage di Oslo leggeva Kafka e, con buona pace di Rorty, Orwell!
Giuseppe Cambiano, nel suo Perché leggere i classici (il Mulino), ha capito bene come l'idea ottimistica di democrazia che sta dietro la concezione tutta americana di una Nussbaum o di un Rorty sottenda una «teologia, secondo la quale, dopo tutto, il bene finirà per trionfare in virtù della sola conversazione» o, aggiungo io, in virtù del semplice fatto che si è umanisti, ironici e liberali. La democrazia, come la scienza, non è "naturale"; democrazia e scienza, oltretutto, sono una cosa sola e comportano una lunga e "penosa" educazione dei nostri istinti e della parte emozionale della nostra persona. E allora come conciliare questo fatto con l'esigenza di rilancio delle Humanities?
Forse nel modo in cui lo fa John Armstrong nel saggio che segnalo, leggibile on line. Armstrong è filosofo britannico di estrazione analitica (e resta analitico nello stile argomentativo), poi diventa filosofo non facilmente etichettabile, date le sue simpatie "romantiche" per i grandi temi goethiani, e prim'ancora socratici, dell'amore e della vita (Guanda ha tradotto in italiano diverse sue opere, ultima delle quali Come essere felici in un mondo imperfetto). Nelle pagine di questo saggio non rivela grandi verità, ma imposta correttamente il problema. Per lui non si tratta di vedere la scienza con gli occhi dell'arte, come raccomandava Nietzsche, ma l'umanesimo con gli occhi di una mente oggettivante (il che non vuol dire necessariamente "calcolante" e quantificante) che ci permetta di valutare non in base a generici richiami alla tradizione, a una presunta essenza dell'umano, o a fonti di conoscenza "altre" rispetto alla ragione e alle sensate esperienze.
Armstrong ci fa capire che prima di ogni discorso sui valori c'è un training in critical thinking e c'è una prioritaria disposizione a vagliare dati e significati; e pur sapendo che un punto di vista normativo non può essere stabilito solo in base a evidenze empiriche, sa anche che la sua «autorità non deriva dal consenso, sebbene miri al consenso». In buona sostanza (e mi si passi il voluto paradosso), nell'eterna querelle degli antichi e dei moderni possono anche avere ragione gli antichi, purché lo stabiliscano i moderni. A "ragion" veduta.

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