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Questo articolo è stato pubblicato il 04 settembre 2011 alle ore 19:56.

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L'arrivo di Wang, una scena del filmL'arrivo di Wang, una scena del film

Oggi non parliamo di un pur buono Al Pacino con Wilde Salomè, né del grande Michael Fassbender dell'intimista e un po' manieristico Shame di Steve McQueen. Per una volta andiamo a Controcampo, per un film che la Sala Grande della 68ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia l'ha vista, anche se alle 11 del mattino.

Parliamo de L'arrivo di Wang, che sarà distribuito da Iris Film, un capolavoro del cinema di genere, non solo italiano. Film alieno in tutti i sensi: parla di extraterresti ma è anche, anzi soprattutto, altro rispetto a qualsiasi modello cinematografico nazionale. A girarlo quei geniacci non troppo fortunati dei Manetti Bros: due fratelli che hanno un occhio e una visione originali, un modo di usare la macchina da presa straordinario e imprevedibile. Due che sanno come appassionare gli spettatori e, cosa che non guasta, non disdegnano di lavorare in economia (meno di 500.000 euro per un sci-fi che nulla ha da invidiare agli americani). Come nei grandi cult della fantascienza, ovviamente c'è anche la metafora del presente: l'abbattimento degli stereotipi, che siano buonisti o violenti, il voler rovesciare il pregiudizio, sempre e comunque. Con ironia, acume e idee geniali, con un paio di colpi di scena da antologia e due attori- Ennio Fantastichini e Francesca Cuttica- che tengono sulle spalle il film, insieme ai due cineasti. Ottimo il lavoro anche del cast tecnico e, oltre ai curatori degli effetti visivi, ovviamente eccellenti, ci piace lodare il lavoro di Noemi Marchica alle scenografie. Abbiamo parlato dell'opera con Antonio e Marco Manetti, l'uno più silenzioso e l'altro più istrione, complementari nelle interviste come nei film.

L'arrivo di Wang e L'ultimo terrestre. Gli alieni conquistano Venezia?
Due film italiani con gli alieni è un fatto storico, da guinness dei primati. E' un segno della bravura del direttore Müller nel sapere andare oltre i soliti confini e di una generazione di cinematografari cresciuta con la fantascienza. Siamo coetanei con Gipi, lui fa fumetti e cinema, non siamo così distanti. Forse una certa cultura, una certa mentalità ora fanno capolino anche ai "piani alti".

C'è molta tv per esempio. Nel bunker sembra di stare in un episodio di 24
Sì, lo confessiamo, c'è molto 24 in questo film. Ma non perché lo facciamo con consapevolezza, quella serie ci piace e ci è entrata nel sangue e nell'immaginario. Fa parte dei riferimenti culturali che abbiamo, non abbiamo l'ossessione della citazione, ci viene naturale.

Perché l'Italia ignora il cinema di genere?
Perché dicono sia più costoso, e non si capisce perché: se fai correre uno con una pistola o senza, la differenza sono i 10 euro che ti costa il modello dell'arma. E vale anche per la fantascienza, che è un modo di scrivere, non di spendere. Noi un tempo pensammo a un supereroe italiano e mi ricordo che ci guardavano e dicevano: ma queste cose si fanno in America! E io rispondevo: ma perché a New York vedi davvero l'Uomo Ragno? Ci dimentichiamo che la fantascienza, da Orlando che va sulla luna al Minotauro, l'abbiamo inventata noi e i greci. Qui abbiamo lavorato con Maurizio Memoli, uno che ha lavorato con la Weta e ha fatto Avatar e che attorno a sé e ad altri professionisti ha organizzato un gruppo giovane e caparbio che ha fatto un ottimo lavoro (una citazione speciale merita Simone Silvestri, già mago degli effetti visivi per l'ottimo e sottovalutato Piano 17- ndr).
Il fatto è che fare cinema di genere, agli occhi di molti, ti fa sembrare più superficiale rispetto a chi magari racconta la storia di una coppia. E perché mai? La fantascienza, soprattutto in Italia, proprio perché genere underground, è per natura di basso costo. E questo ci va bene: abbiamo la nostra casa di produzione, la Manetti Bros Film, e l'uso "parsimonioso" del budget fa parte del nostro cinema. Se un giorno qualcuno ci dovesse dare due milioni, noi faremmo un film che sembrerà costarne 20. Vediamo se qualcuno scommetterà su questa ipotesi!

Secondo noi il vero atto di coraggio sarebbe stato mettervi in Concorso
Siamo tranquilli, Dario Argento e Sergio Leone a Venezia non li hanno mai calcolati, e la loro compagnia mi consola. Certo, al di là del nostro film, ci piacerebbe un giorno vedere un film di genere ammesso in concorso con la stessa dignità delle più classiche pellicole cosiddette d'autore. Ma per la salute del cinema, non per noi. Detto questo il direttore, con noi e con Gipi, ha dimostrato un enorme coraggio e semmai ti avessero ascoltato, molti avrebbero storto il naso. I Manetti in concorso al Leone sarebbero stato troppo per molti!

Del film piace la guerra totale al pregiudizio. Senza pregiudizi, appunto
Il pregiudizio è sempre tale, al di là di chi ne sia oggetto. Quello che abbiamo voluto fare noi è stato sfumare il tutto, mostrare gli stereotipi e abbatterli. Questo è un film sull'incomunicabilità, penso al gridare dei politici nostrani senza mai ascoltarsi: ed è quello che succede ai nostri personaggi, ancorati all'idea che si fanno dell'altro da sé. Non sanno, non ce la fanno a collaborare perché non si capiscono. Ci sembrava un bel modo di raccontare questa incapacità di comprensione reciproca tipica della nostra epoca.

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