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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2011 alle ore 22:00.

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Cuba in the Age of ObamaCuba in the Age of Obama

Arriva Gianni Minà al Lido e alle Giornate degli Autori, giunte alla loro ottava edizione, ci regala quattro ore di documentario sulla sua amata, controversa, unica Cuba. L'esperimento politico più contrastato e longevo del dopoguerra passa di nuovo sotto la lente d'ingrandimento del giornalista più appassionato che conosciamo, un esempio di etica e curiosità come non ce ne sono più. Il migliore della sua generazione, probabilmente, e non solo di quella.

«Cuba in the Age of Obama» è la dimostrazione di quanto le sue doti non si siano appannate con l'età, tanto che si rimane stupiti da come non si appoggi mai ad alcuna certezza. E così a chi se lo figura come la vestale del castrismo o del neobolivarismo, lui dà l'ennesimo schiaffo morale, scrutando Obama. In questo documentario - non dimentichiamoci che oltre ad essere il nostro miglior intervistatore e un giornalista di altissimo profilo, Minà è anche un documentarista di livello, premiato alla Berlinale per la sua carriera cinematografica -, si mette dalla parte dei cubani e non di Cuba.

Percorre l'isola cercandone il cuore pulsante, sia esso un concerto dall'affluenza record o le scale in cui siedono un gruppo di giovani, speakerando direttamente in spagnolo questo Hitchcock del cinema politico del reale - come il maestro, infatti, ha voce e silhouette inconfondibili a fare da marchio di assoluta qualità - ci mostra quel paese che da decenni conosciamo solo nelle strumentalizzate diatribe ideologiche di postcomunisti e postfascisti. Un viaggio speciale, dove il pregiudizio non è ammesso, in alcun senso, e in cui si cerca di scoprire una nazione per cui l'embargo non è stato solo economico, ma anche culturale: il mondo l'ha esclusa dal mercato così come dalla possibilità di essere vissuta e capita.

E il regime di Fidel Castro ne è stato complice, impedendo l'emigrazione e bloccando la sua rivoluzione alla conquista dell'Avana, rimanendo eterno esperimento e mai evoluzione sociale e politica.

Black Block
Ben diverso è il documentario «Black Block», che ha in sé, pur se declinata esteticamente e metodologicamente in maniera diversa, la stessa passione umana e civile. Carlo A. Bachschmidt, che è di Genova e a Genova era nel 2001, ha tirato dentro il suo progetto un gruppo di ragazzi stranieri, nella sua città per i processi del G8. Alla ricerca della verità - "abbiamo le loro parole, non esistono video dei massacri della Diaz e di Bolzaneto"- e della reazione delle vittime di quella ignobile sospensione dei diritti civili e umani. Scopre che quel movimento idealista, ora, almeno per quanto riguarda la loro esperienza, si è fatto più concreto e diretto, li mette in una stanza scarna con pochi oggetti significativi (c'è anche un estintore) e ne raccoglie i racconti, dignitosi e lucidissimi.

Solo allo stremo la voce di uno si rompe, una lacrima solca la guancia di un'altra. Il potere della parola e della testimonianza, le figure fisiche di questi ragazzi, le loro bellezze originali, tutto contribuisce a un film - da venerdì in sala al Politecnico Fandango di Roma, dal 15 in dvd - che fa da memoria storica e testimone di una difficile rinascita dalle ceneri di quel trauma, di quella violenza. A sostenerlo la Fandango e quello stesso Domenico Procacci che ha scommesso su Diaz di Daniele Vicari, per assolvere con il cinema il compito che la giustizia ha dimenticato. Da vedere, per riuscire, anche in questo caso, a superare i pregiudizi. Per ricordare il dramma di dieci anni fa e, prendendone consapevolezza, migliorare.

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