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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2011 alle ore 11:53.

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Li ha seguiti in silenzio, li ha visti invadere l'anima del suo paese e un giorno d'estate di vent'anni fa li ha visti partire. I russi in Cecoslovacchia. A ritrarli in ogni rito di potere, in ogni menzogna e a sorpresa in ogni debolezza è stata una donna, Dana Kyndrová, straordinaria fotografa ceca di cui è appena uscito lo splendido volume "Rituály normalizace", i rituali della normalizzazione. Una cronaca implacabile perché quotidiana, sovversiva perché antieroica, giusta perché composta e pietosa anche verso il nemico.

Un racconto in bianco e nero per ricostruire gli anni dell'occupazione sovietica, dal 1968 al 1991, "un periodo di vuoto spaventoso – ricorda l'autrice in un incontro dedicato al nostro giornale – che solo un'ideologia morente come quella comunista poteva definire normale".

E' per sopravvivere a questa falsa normalità che è diventata fotografa?
Era il 1973, avevo diciotto anni e volevo diventare giornalista. Ma dal momento che entrare in un giornale voleva dire prostituirsi al regime, ho scelto di studiare francese. E contemporaneamente è arrivata la fotografia. Un vocabolario libero per gli occhi. Ci obbligavano a festeggiare il Primo Maggio, la fratellanza con l'Unione Sovietica, e in quelle interminabili manifestazioni io portavo la macchina fotografica. Quello che vedevo era una farsa: i ragazzi, i miei coetanei che inneggiavano alle conquiste di Lenin e subito dopo si appoggiavano esausti ai simboli del potere. Vivere nella menzogna logora. Tutti partecipavamo a queste cerimonie, tutti sapevamo che non potevamo fare altrimenti, e tutti eravamo contro. Era pura schizofrenia.

Ma come è riuscita a scattare queste immagini sotto lo sguardo dei leader della rivoluzione e dei loro cultori?
Presentandomi come un fotoamatore. E poi ero una ragazza e le donne non hanno mai rappresentato un pericolo nell'ideologia sovietica. Per loro ero invisibile.

Anche il suo lavoro è rimasto invisibile?
Non ho mai pubblicato nessuna di queste immagini fino alla Rivoluzione di Velluto, nel 1989. Ma anche i sovietici si erano imposti qualche censura. Mia madre mi diceva che quando era piccola i volti di Marx, Lenin, Stalin e poi di Klement Gottwald erano ovunque, invadenti, minacciosi. Ma dopo la rivolta del '68, dopo il sacrificio di Jan Palach, le autorità facevano più attenzione, evitavano di "irritarci" troppo e quei ritratti, compreso quello di Breznev, venivano esposti solo durante le manifestazioni. Poi, vigliaccamente, sparivano.

Il potere rimaneva distante, ma i suoi emissari invece erano ovunque. E nelle sue immagini questi sguardi terribili si intravedono nella folla.
Quando si censurano le parole, lo sguardo parla. Lo sguardo impaurito di due bambini, per esempio, che sapevano già riconoscere e temere un poliziotto della Milizia del Popolo, con quegli occhi duri e una copia di Rudé Právo, il giornale comunista, piegato nella tasca della giacca. E poi c'era lo sguardo perso dei piccoli pionieri, quello senza eroismo degli atleti delle Spartiachiadi, e quello rassegnato delle donne che trascorrevano metà della loro giornata in fila, davanti ai negozi in attesa di tutto, da un pezzo di carne alla carta igienica.

A un certo punto, però, sopra gli occhi di un ritratto di Lenin appare per caso il volto di Gorbaciov.
Nel 1987 Gorbaciov era venuto in visita a Praga, ma abbiamo dovuto aspettare ancora tre anni per buttare nel fuoco i simboli del comunismo e lo abbiamo fatto il Primo Maggio del 1990, sul piazzale di Letná. E allora abbiamo cominciato a guardare anche negli occhi dei soldati russi e abbiamo visto la loro povertà, la loro solitudine, estranei al nostro paese, e in fondo anche al loro, a quell'Unione Sovietica in fin di vita. Ho cominciato a fotografarli con la stessa tecnica di sempre – una donna non fa paura a nessuno – e nei primi mesi del '91 ho seguito le operazioni del loro ritiro: caserme, baracche, stanze vuote, scatole di cartone chiuse con lo spago e quelle partenze desolate alla stazione. Ma fino all'ultimo hanno voluto recitare la commedia e hanno organizzato un comizio d'addio, a cui naturalmente non ha partecipato nessuno di noi. I soldati invece erano lì, schierati a sentire le parole vuote del loro ufficiale e a leggere quella frase ridicola dipinta sul palco: "Partiamo, ma l'amicizia rimane".

Eppure i russi sono tornati e Praga è piena di coppie di sposi che scelgono il Ponte Carlo come sfondo per le loro fotografie. Ma cosa sa questa nuova generazione della vostra e della loro storia?
Nulla, del resto basta vedere i libri di storia russa. Oblio assoluto. Per questi ragazzi oggi conta solo la bellezza di Praga, ma è già qualcosa. Si sposano a Mosca e vengono qui, vestiti da matrimonio, a farsi le foto. Ieri arrivavano sui carri armati, oggi in limousine. Altri riti, altra normalità, per tutti.

Dana Kyndrová, Rituály normalizace, Kant, Praga, pagg. 176, euro 30

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