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Questo articolo è stato pubblicato il 10 settembre 2011 alle ore 18:21.

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A dieci anni di distanza dall'11 settembre 2001, vorrei proporre la chiave di lettura della "paura" per meglio comprendere gli effetti dell'incursione delle Twin Towers. È stato questo sentimento – la pura individuale e collettiva, concreta e misteriosa – a dominare la popolazione, i dirigenti politici e non pochi intellettuali d'America. Mai, prima di allora, dall'incendio della Casa Bianca nel 1812 per mano delle truppe britanniche, il territorio statunitense era stato violato, con l'eccezione di Pearl Harbour che, però, aveva dato avvio a un vero e proprio conflitto mondiale.

Diversamente dall'Europa, anche nel corso del terribile Novecento, gli Stati Uniti sono sempre rimasti indenni da invasioni. Quel giorno, invece, e tutto d'un colpo, veniva a cadere l'inviolabilità dell'America, e sfumava quell'illusione della pace suscitata dalla fine della Guerra fredda che Francis Fukuyama aveva affrettatamente interpretato come La fine della storia (Rizzoli, 1992).

Nacque allora «la guerra globale al terrorismo», formula coniata dai think thank di George W. Bush, che rimbalzò dalla tv ai giornali e alla popolazione, producendo conseguenze politiche, sull'American way of life e anche tra gli intellettuali. Alcuni pensatori liberal abbracciarono la teoria secondo cui la guerra al terrorismo era un nuovo capitolo dell'antitotalitarismo dopo la lotta al nazismo e al comunismo: Paul Berman, acuto analista della rivista di sinistra «Dissent», pubblicò Terrore e liberalismo (Einaudi , 2004). Più di tutti, però, guidarono la battaglia anti-terroristica gli intellettuali neoconservatori – tra cui Robert Kagan, William Kristol, Norman Podhoretz – molti dei quali provenienti dal trotzkismo, che dopo l'11 settembre assunsero anche responsabilità dirette nell'amministrazione Bush, come nel caso di Richard Perle e Paul Wolfowitz, numero due di Donald Rumsfield al Pentagono (Norman Podhoretz. La quarta guerra mondiale, Lindau, 2004, Tzvetan Todorov, La paura dei barbari, Garzanti, 2009, Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, Mondadori, 2004, David Frum, Richard Perle, An End to Evil, Random House, 2003).

Furono proprio loro gli architetti del nuovo corso in politica estera, fissato nel documento The National Security Strategy of the United States of America, pubblicato nel settembre 2002 dalla Casa Bianca con la rivisitazione della dottrina internazionale: l'America è l'unica grande potenza che ha la possibilità militare e la forza economica per mantenere l'ordine del mondo, e deve quindi assumere la responsabilità della sicurezza propria e globale; e poiché la sicurezza è collegata alla democrazia, spetta agli americani esportarla anche unilateralmente al fine di consolidare la pace.

Fu proprio la paura che aveva afferrato l'intera nazione a creare il consenso che consentì, dopo il 2001, l'avvio prima della campagna d'Afghanistan, e poi della guerra d'Irak, lanciata su basi pretestuose. Con il presidente neoconservatore la politica estera virava dal realismo al «Destino manifesto» a cui gli Stati Uniti erano chiamati per diffondere la libertà contro il Male, allora impersonato da Osama bin Laden. Una tale ideologizzazione della strategia contro i terroristi che, certo, erano divenuti i nuovi protagonisti internazionali, finì tuttavia per produrre non poche trasformazione all'interno degli Stati Uniti. Veniva approvato la legislazione d'emergenza, il Patriot Act, che intaccava le storiche libertà civili americane e produceva fenomeni abnormi come Guantanamo; si moltiplicavano le strutture di intelligence rese necessarie per prevenire gli attentati; si espandeva il potere dello Stato alterando la tradizione libertaria americana; e mutava la qualità della vita dei cittadini per la moltiplicazione dei controlli d'ogni genere. Più di tutto si dilatava quell'impalpabile ansia individuale e collettiva che generava disturbi da stress post-traumatico, tanto diffusi da richiedere perfino un'apposita legge – il James Zadroga 9/11 Health and Compensation Act – al fine di curare le malattie riconducibili all'attacco.

È così che la paura innescata dallo shock dell'11 settembre, ha lasciato un segno profondo sia nella psiche che sul sistema americano. Dopo quasi un decennio, due eventi hanno però diluito la drammatica memoria: la crisi economico-finanziaria che ha scacciato il terrorismo come preoccupazione prioritaria degli americani; e l'elezioni di Barack Obama che ha voltato pagina, almeno nell'immagine, rispetto a Bush. Permane tuttavia sullo sfondo l'angoscia collettiva dell'11 settembre, accresciuta dal nuovo timore per il tramonto dell'egemonia Usa, ipotizzato da Niall Ferguson in Colossus (Mondadori, 2006).

Ogni trauma che appare in terra americana – e non sono pochi – viene evocata la «teoria del complotto» che un noto storico del Novecento, Richard Hofstadter, aveva già stigmatizzato in Anti-Intellectualism in American Life (Vintage Books, 1962). Durante l'ultimo decennio, si è sentito ripetere fino alla noia non solo da parte di deliranti autocrati alla Ahmadinejad, ma anche da scrittori dell'estrema destra fascistoide o dell'estrema sinistra marxistoide, l'accusa secondo cui dietro l'11 settembre non ci poteva non essere un qualche complotto (americano o magari sionista). In Italia tali illazioni cospirative sono state propalate da alcuni gruppi quali, ad esempio, quello del libro curato da Franco Cardini La paura e l'arroganza (Laterza, 2002) con contributi di Alain de Benoist, Massimo Fini e Tariq Ali, o l'altro facente capo a Giulietto Chiesa, autore di un'ennesima pubblicazione complittistica Zero. Perché la versione ufficiale dell'11 settembre è un falso, Piemme, 2008).

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