Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 10 settembre 2011 alle ore 18:24.

My24

Nel 1999 ero una degli artisti accreditati per lavorare presso il World Trade Center, al novantunesimo piano della Torre 1. Ogni anno, nella ricorrenza dell'11 settembre 2011, mi sono sempre sentita ottenebrata. Finalmente, nel luglio scorso, il luglio 2011, sono riuscita a ricordare e a riallacciarmi alla mia esperienza vissuta prima dell'11 settembre al World Trade Center.

Era un'afosa notte d'estate quando, intorno alle 23, trasportai le mie cinque o sei casse di metallo nello spazio che mi era stato assegnato. Una signora sconosciuta, che indossava pantaloni mimetici e a quell'ora di notte spingeva un carrello sovraccarico di vecchie casse di metallo, non attirò più di tanto l'attenzione degli uomini della sicurezza che si trovavano accanto agli ascensori all'ingresso. Avevo soltanto un pass, di quelli che danno ai visitatori di passaggio. Ci fu tra noi qualche battuta di spirito e mi fecero cenno di passare. Nei mesi a venire ci saremmo salutati spesso, dopo quella prima volta.

Per raggiungere il novantunesimo piano era necessario prendere l'ascensore diretto per il settantottesimo, scendere all'ammezzato e cambiare ascensore, salendo su quello che si fermava a tutti i piani, un po' come quando si prende la metropolitana.
Il mio ultimo corpus di opere aveva avuto come tema il deserto. Avevo lavorato sui concetti di vastità e di vuoto, sugli oggetti consumati e tutto ciò che ci si lascia indietro, le cose minate e quelle distrutte. A quel punto ero entusiasta di poter affrontare un ambiente così radicalmente diverso come quello, sovraffollato, delimitato, popolato da una marea di esseri umani…

Lo spazio a mia disposizione era rudimentale, grande e aperto. Il pavimento era di cemento, il soffitto di pannelli di gomma espansa ignifuga - sembrava molto tossica – che ricoprivano le paratie metalliche. Le strette finestre alte due metri e dieci erano sigillate ermeticamente. Se si guardava fuori di esse, non c'era più alcuna prospettiva umana. Non si vedeva nessun essere umano.

Non vedevo l'ora di uscire. In un primo tempo non sopportavo assolutamente di trovarmi in quell'edificio. Per raggiungerlo si doveva attraversare la zona dei colletti bianchi di Manhattan, superare i controlli della sicurezza, salire in un ascensore che con la sua incredibile velocità in verticale aveva sgradevoli effetti sull'organismo. E per di più, una volta arrivati, non si potevano aprire le finestre. In quell'ambiente entrava soltanto aria condizionata. Non c'era alcun ponte, alcun collegamento di sorta tra il dentro e il fuori. In ogni caso, non è che fossi maggiormente a mio agio a piano terra, in strada, dove dovevo respirare l'aria umida e puzzolente di piena estate, a contatto con tutti quegli homo sapiens.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi