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Questo articolo è stato pubblicato il 10 settembre 2011 alle ore 18:59.

Così ci siamo avvicinati a un nervo scoperto: legislatori di diverso orientamento politico sono sollecitati, da musicisti di assoluto prestigio e persino di fama mediatica, come Uto Ughi, Riccardo Muti, Salvatore Accardo, a compiere l'atto che avrebbe effetti decisivi, rovesciando un desolante destino: introdurre la musica in tutte le scuole d'Italia. Reagiscono come sappiamo: sono sordi, ciechi e muti. Alcuni di loro, quasi scusandosi, sussurrano che «non è il momento», che «il Parlamento ha ben altro cui pensare»... Ma in qualsiasi circostanza, con la massima stabilità politica e con il Pil alle stelle e una crescita annua del 126,9 %, la loro risposta sarebbe la stessa: avrebbero ben altro cui badare. Le vere ragioni che condannano all'estinzione la musica forte non sono finanziarie né contabili: sono culturali.
Questa certezza ci indica, probabilmente, un altro interlocutore. Colui che oggi è Presidente della Repubblica italiana è, incomparabilmente più che i suoi predecessori, attento alla realtà culturale, e sa perfettamente che il nucleo essenziale di ciò che l'Italia è e potrà essere è la cultura. È retorico appellarsi a lui? Può darsi, ma l'alternativa è la catastrofe. Sappiamo con certezza come al Presidente non sfugga una finzione primaria della musica: l'essere l'anello di congiunzione tra scienze dure e scienze molli, il trasmettere energia cognitiva, il far capire meglio, a chi segua studi musicali, la matematica e la pittura, la fisica e l'architettura, la cosmologia e la poesia o la psicologia. Gli è certamente noto come una vertiginosa sapienza antica (Platone, Quintiliano, Marco Aurelio...) abbia dichiarato incompetente e maldestro l'uomo che, senza conoscere a fondo la musica, si dedichi al governo dello Stato. Vogliamo gettare la musica nell'immondezzaio della Storia?
Perché in Italia la musica è assente dall'educazione e dall'istruzione normale? Nel 1861, divenuto primo ministro della Pubblica istruzione al governo dell'Italia unita, Francesco De Sanctis, per tanti aspetti benemerito, riorganizzando il nuovo sistema scolastico dai lacerti e brandelli di ciò che era stata l'istruzione borbonica, pontificia, ducale, granducale, austriaco-lombarda, eliminò spietatamente la musica, con una curiosa motivazione, condivisa da gran parte dei protagonisti della lotta per l'indipendenza (non da tutti, non da Mazzini, non da D'Azeglio...): la musica, egli pensava, era una disciplina per fanciulle educande, per signorine di buona famiglia, insomma un'attività femminile (dando all'aggettivo "femminile" un'accezione negativa in partenza!).
Un successore di De Sanctis al dicastero, Emilio Broglio, nel 1868 meditò di abolire anche i Conservatorii. Già allora ferveva la retorica degli "enti inutili". La radice filosofica neo-hegeliana, orientata verso una collocazione della musica a livello inferiore, sottoculturale, "manuale", ha agito a lungo, sciaguratamente, da De Sanctis a Croce, a Gentile, allo stesso Gramsci, fondatore? insieme con Bordiga? del Partito comunista, ma gentiliano per formazione radicata, come ha irrefutabilmente dimostrato Augusto Del Noce nel suo libro L'eurocomunismo e l'Italia (1976). Tre grandi orientamenti ideologici in Italia, l'idea liberale, il fascismo, il comunismo gramsciano, sono stati ostili all'insegnamento pubblico e diffuso della musica. Un quarto orientamento, quello cattolico, è stato reticente ed elusivo. Avremmo bisogno di spazio per analizzarlo nei dettagli. Bene: ora abbiamo gettato un po' di luce sull'origine di un misfatto. Dovremmo avere acquistato più forza, ora, per ricostruire sulle macerie.
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