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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2011 alle ore 08:15.

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Quando frugo fra gli scaffali di una libreria per acquistare un romanzo, leggo tre paragrafi scelti a caso, distanti fra loro. Ci deve essere qualcosa, in quelle tre frasi compiute ma non contigue, che mi dice, e con forza, che appartengono allo stesso libro. Quel qualcosa è lo stile, ciò che unifica. Lo stile è la ricerca dell'uno attraverso il molteplice.
James Joyce aveva l'abitudine di appoggiare l'orecchio al pavimento per ascoltare le voci dei contadini che abitavano al piano di sotto: conversano – diceva – in un idioma così inconsapevolmente ricco di storia e di fascino da costringermi all'ascolto. Ma allora si andava a sentire l'Amleto, oggi lo si va a vedere. Tutto – spettacoli, tv, cinema – sembra congiurare contro l'orecchio, che vive nel rumore, frastornato dalla mancanza di silenzio e dunque di musica e poesia.
Nell'era del rumore e dell'immagine in movimento spetterebbe agli scrittori organizzare una Resistenza per opporsi alla sordità. E invece no: la letteratura dell'oggi, con poche, magnifiche eccezioni, si accontenta di sembrare tradotta. Non solo quella italiana, ma la nostra più di altre.
Questa catastrofe culturale ha origini diverse: una di queste è il disprezzo che la scuola, fin dalle elementari, coltiva verso l'imparare a memoria. La parola è un suono che simboleggia ciò che nomina. Senza questi suoni potenti che ridefiniscono il mondo, ben poco ci distinguerebbe dal gatto a cui «manca solo la parola». Ma un sistema di suoni simbolici, per essere decifrato, ha bisogno della vigilanza della memoria. Una storia ha un senso se viene ricordata dall'inizio alla fine, cioè nella sua unità. E noi siamo quel che ricordiamo, come individui, popolo, civiltà. Non c'è iato fra essere e ricordare.
Un popolo senza memoria è un popolo senza letteratura, o con una letteratura posticcia, quindi senza fierezza, con un senso di sé labile e pavido. E quando i predoni verranno – perché sono sempre venuti, perché hanno sempre fiutato la debolezza delle culture decadenti – quel popolo sarà colonizzato, e la sua lingua, cioè la sede di ogni libertà individuale e collettiva, sarà ridotta al ruolo di dialetto. La tradizione letteraria non è solo una fonte a cui abbeverarsi, è la nostra vita, siamo noi la tradizione, ma bisogna dirlo ai ragazzi che ogni nostro pensiero prende corpo al cospetto di chi è venuto prima di noi, così come il nostro pensare dovrebbe rivivere nell'agire della posterità.
Quando il Titanic affondò, Conrad scrisse che bisognava aspettarselo da una nave con più camerieri che marinai. Se il nostro Occidente, e l'Italia che amo, oggi assomigliano tanto a quella nave maledetta, è anche per una questione di mancanza di stile, perché lo stile è soprattutto voglia di verità: «Benedette siano le leggi metriche – dice Auden – che vietano le risposte immediate / Costringono al ripensamento, liberano dalle vaghezze dell'Io».
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Andrea Molesini ha vinto il Premio Campiello 2011 con il romanzo Non tutti i bastardi sono di Vienna (Sellerio)

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