Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2011 alle ore 08:15.

My24

Sul Domenicale del 28 agosto Gabriele Pedullà ha lamentato la caduta verticale dell'interesse per lo stile da parte dei critici e degli scrittori italiani: se non tutti, almeno la maggioranza. L'articolo è pieno di osservazioni acute, tra tutte la possibilità del l'avvento, anche in campo letterario, di un fenomeno che ha investito ormai da molto tempo (diciamo da Marcel Duchamp, e poi dalla pop art, dal concettuale, da Fluxus...) le arti visive: non più opere ma "concetti" o performance che si esauriscono in se stesse e nella reazione che suscitano senza passare per la mediazione del lavoro sul testo.
Ma manca, a mio avviso, la radice del problema, del quale non a caso non addita in alcun luogo le cause, se non, parrebbe, l'ignavia degli scrittori, il cinismo del mercato e la malafede dei critici che non fanno il loro dovere.
Ma il primo dovere dei critici davanti a una trasformazione radicale (appunto) è quello di capire, e con ciò delimitare il perimetro in cui potranno poi misurarsi le opere e i giudizi. Diciamo allora che ci troviamo di fronte a un fenomeno di proporzioni ben più vaste, di cui gli scrittori sono una componente importante ma non unica né maggioritaria. Quello che accade non è solo e non è tanto che gli scrittori scrivono "male" (molti sì; ma è stato così in tutte le epoche; solo i puristi ottocenteschi credevano che nel benedetto Trecento tutti scrivessero bene, compreso gli autori di partite doppie o di lettere commerciali); è piuttosto il fatto che la lingua comune, il linguaggio verbale, l'idioma nazionale, si è drammaticamente impoverito, ovvero non è più ritenuto un luogo in cui avvengono esperienze significative sotto il profilo sia della conoscenza che dell'emozione. La lingua ha perso carisma, non è più oggetto di amore, non è più palestra di lavoro né di gioco, non veicola più né sacro né eros. Passioni, interessi e pensieri, individuali e collettivi, vengono simbolizzati altrove: nella vasta galassia del visivo (cinema prima, poi televisione e nuovi media, videogame compresi); e più ancora in quella capillare estetizzazione dell'esperienza quotidiana che è tipica di una società dominata dal marketing.
Certo non è un fenomeno recente. La storia letteraria del Novecento sta tutta sotto la sua costellazione; e già Gautier, Baudelaire e Mallarmé sapevano quanto la vera Medusa che pietrificava la loro scrittura fosse ciò che chiamavano La Moda. Non si spiega altrimenti l'ermetismo della letteratura modernista, il sabotaggio della comunicazione praticato dalle avanguardie, la scelta operata da molti, per competere con la concorrenza spietata di questo diverso e ostile universo simbolico, di incrementare lo spessore dei propri procedimenti, di esasperarne gli effetti, di estrarre la quintessenza del proprio medium, da Proust (i cui personaggi erano consumatori compulsivi), a Joyce (il cui Leopold Bloom era un pubblicitario), fino al borborigmo dei personaggi di Beckett o all'isteria interiettiva del l'ultimo Céline. Solo che, come dire, non ha funzionato. La battaglia è stata persa, e bisogna dirselo: il grande stile modernista è rimasto un fenomeno di élite, o di studio accademico, così come quelli che si proclamano rivoluzionari si incontrano ormai solo nelle università. Il postmoderno è solo un nome, uno tra i tanti, della sconfitta subita.
Riconoscere questo stato di cose non significa approvarlo. Che la letteratura (e la società) risultatane sia peggiore di quella del passato non può e non deve essere taciuto. Ma per reagire si deve disporre di una mappa accurata. Piuttosto che accusare gli scrittori di scrivere male, si deve capire il perché della loro subalternità (e con essa, di tutte le subalternità): il fatto per esempio, paradossale se ci si pensa, che per molti il doversi esprimere attraverso il linguaggio verbale sembra più una condanna che un'opportunità. Potessero, si ha l'impressione ne farebbero a meno, comunicando direttamente con le immagini, un po' come gli adolescenti che postano brani e sequenze su YouTube o su Facebook. Non competono più, si sottomettono. E non a un diverso linguaggio ma a chi attraverso di questo detiene il potere.
Purtroppo, o meglio per fortuna, non si può. La letteratura si fa con le parole. E tante altre cose si continuano e si continueranno a fare con esse: la politica, l'amore, praticamente tutto ciò che ci rende esseri umani. Un popolo senza lingua è un popolo senza polis, e dovrebbero riflettere gli atenei che oggi erogano corsi direttamente in inglese, retrocedendo così l'italiano a un dialetto, una lingua domestica incapace di parlare di cose serie come la scienza e l'economia. Una letteratura che si limiti a rispecchiare questa situazione non può che avere un valore sintomatico. Ma non bisogna sottovalutare il valore del sintomo: in forma straniata e dolorosa (o falsamente euforica, che ne è il rovescio speculare) esso è sempre l'espressione di una verità nascosta, occultata, cancellata. E la verità da portare in luce è proprio quella condizione di subalternità in cui si dibattono non solo gli scrittori ma tutti. Per uscirne non serve a nulla ammantarsi delle glorie del passato. Riconoscersi subalterni è il primo passo per non esserlo più.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi