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Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2011 alle ore 16:29.

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Potrebbe sembrare uno strano incontro quello tra Wynton Marsalis ed Eric Clapton. Da una parte, il cinquantenne trombettista nero della Louisiana, enciclopedico virtuoso e custode dell'ortodossia jazz; dall'altra "Manolenta", uno dei grandi dinosauri del rock (classe 1945), l'eroe bianco della sei corde elettrica lanciato giovanissimo da John Mayall, emerso come solista di un supergruppo leggendario (i Cream) e da anni popstar di alto lignaggio.

Quelle notti al Lincoln Center
Eppure, quando nell'aprile scorso i due si sono ritrovati per tre concerti l'uno accanto all'altro di fronte al pubblico newyorkese del Lincoln Center, è accaduto il miracolo. Tutto merito del blues, che ha abbattuto gli steccati e le differenze tra loro. E infatti «Play the blues» è il titolo dell'album che fotografa quelle serate, fresco di stampa per l'etichetta Rhino, disponibile anche in versione cd più dvd.

Racconta Marsalis: «Quando Eric e io ci siamo incontrati la prima volta, tra noi è nata subito un'amicizia basata sul comune amore per la musica e nutrita dall'eredità che condividiamo». Un'eredità che ingloba «le gighe irlandesi e la tradizione dell'Africa occidentale, gli inni inglesi e gli spiritual, il tutto sintetizzato in una forma trascendente: il blues».

Musica delle radici americane
Per l'occasione, i musicisti sono stati supportati da una band d'eccezione, di quelle che non sbagliano un colpo, con Dan Nimmer (piano), Carlos Henriquez (basso), Ali Jackson (batteria), Marcus Printup (tromba), Victor Goines (clarinetto), Chris Crenshaw (trombone), Don Vappie (banjo) e Chris Stainton (tastiere). Un gruppo concepito in modo tale da far convivere il suono del blues anni Venti con il sound "sporco" di New Orleans. Più o meno la stessa strumentazione della pionieristica King Oliver's Creole Jazz Band

Il risultato è un disco divertente e pieno di energia. Marsalis soffia nella tromba con piglio insolitamente e piacevolmente rilassato. Mentre il chitarrista britannico - che conosce il blues come le sue tasche e che ha selezionato personalmente un repertorio di classici e standard - canta e suona da par suo, come se fosse cresciuto a pane e swing. In più, nei tre brani finali viene invitato sul palco il vocalist Taj Mahal, altro gigante della roots music americana.

Ciliegina sulla torta? La ripresa di «Layla», il capolavoro di Clapton che lui non avrebbe inserito in scaletta ma che è stata fortemente voluta dal resto del gruppo. Una versione da brivido, con una crescendo emozionante, che da sola vale l'acquisto dell'album.

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