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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2011 alle ore 08:15.

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Una consolidata periodizzazione pone l'inizio dell'età moderna nel 1492, l'anno della scoperta dell'America, della morte di Lorenzo il Magnifico, con cui si aprì una lunga stagione di guerre, e dell'elezione di papa Alessandro VI Borgia, che vide la Chiesa toccare il fondo della sua credibilità religiosa. Ma fu a Granada che quell'annus mirabilis vide eventi destinati a protrarsi con immani tragedie nei secoli futuri, fino a porre ancor oggi questioni decisive di fronte all'intrecciarsi di popoli e culture e alla sfida dei diritti umani. Il 2 gennaio infatti il regno di Granada, l'ultima roccaforte islamica, era caduto nelle mani dei sovrani spagnoli, mettendo fine alla secolare impresa della Reconquista, sulla quale nel tardo medioevo era venuta costruendosi l'identità storica della monarchia castigliana. Qui poco dopo, il 31 marzo 1492, fu decretata la cacciata degli ebrei, che ebbero tre mesi di tempo per abbandonare la Spagna, costretti a esulare verso un paese anch'esso lanciato alla conquista dei mari e del mondo, il vicino Portogallo (dove non avrebbero tardato a essere fatti oggetto di analoghi provvedimenti), e verso i paesi costieri del Mediterraneo. E qui che in aprile Isabella di Castiglia e Colombo presero gli accordi che avrebbero consentito al navigatore genovese di raggiungere il Nuovo mondo, dove tuttavia non avrebbe trovato i bramati regni delle spezie, ma un immenso continente abitato da popoli selvaggi, ben presto ridotti in schiavitù e sterminati da eccidii, violenze, fame, malattie.
La Spagna delle tre culture diventò in pochi mesi la ferrea Spagna cattolica, la cui stessa identità storica avrebbe finito col definirsi nella missione di combattere infedeli, giudei ed eretici, di difendere la vera fede (se necessario anche contro Roma), di cristianizzare il Nuovo mondo. Non a caso fu proprio allora, nel 1496, che un papa valenciano come Alessandro VI insignì i sovrani spagnoli del titolo di Reyes católicos in premio del trionfo sui mori e della cacciata degli ebrei, dopo aver provveduto in virtù della sua autorità universale a tracciare la linea di confine che divideva i dominii spagnoli a ovest (l'America) da quelli portoghesi a est (l'Africa e l'Asia). L'inquisizione, anch'essa sorta in Spagna alla fine del '400 per controllare le pratiche religiose degli ebrei convertiti, i cosiddetti conversos, o cristianos nuevos o marranos, non avrebbe tardato a configurarsi come supremo tribunale competente in materia di ogni forma di dissenso religioso. Nel momento in cui l'espansione dell'Occidente unificava la storia del mondo, insomma, lo faceva sotto il segno della conquista, del razzismo, del colonialismo, dell'intolleranza, della persecuzione di tutto ciò che non rientrasse nello specchio di sé, traendo dall'altrui diversità la «legittimazione della violenza e dello sfruttamento» e celando dietro presunti elementi naturali come la razza (india, nera o giudaica che fosse) l'esercizio di un «potere sopraffattorio» (pag. VIII) che sedimenta «un odio speciale nei confronti delle vittime» (pag. 42). E lo faceva con la benedizione della Chiesa, il cui proselitismo missionario coincideva con lo spirito di crociata e con il diritto-dovere di usare ogni mezzo per combattere i nemici della fede. Fino al 1959, del resto, la liturgia della messa prevedeva una preghiera contro i «perfidi giudei», dalla quale non v'è dubbio che l'antisemitismo popolare traesse spunto e legittimazione.
Tra i molteplici problemi storici che tutto ciò implica Adriano Prosperi si sofferma soprattutto sulla cacciata degli ebrei, indagando le radici medievali di un antigiudaismo religioso destinato a diventare antisemitismo razziale, tanto più gravido di conseguenze in quanto a farne le spese furono soprattutto gli ebrei convertiti, che il battesimo e la grazia di Dio non esentarono da tenaci avversioni, sospetti, discriminazioni, pregiudizi, invidie, e anzi consegnarono senza più difese alla giurisdizione inquisitoriale. Ne sarebbe scaturita una sorta di persecuzione permanente, soprattutto attraverso la macchina infernale della cosiddetta limpieza de sangre, indispensabile per entrare al servizio del re, nei colegios universitari, in alcuni ordini religiosi, che trasferiva appunto sul sangue e non sulla fede l'appartenenza a pieno titolo alla società spagnola e che avrebbe spalancato un abisso di denunce, inchieste, pratiche corruttive, per vagliare ogni sospetta contaminazione giudaica: il che era particolarmente difficile in una Spagna la cui lunga coabitazioni di culture e religioni diverse aveva portato anche la più alta aristocrazia titolata a contaminarsi con quel sangue impuro.
Fu anche in tal modo – sottolinea Prosperi – che lo spregiudicato genio politico di Ferdinando d'Aragona, riuscì a creare una forte monarchia, capace di usare il fanatismo del suo supremo inquisitore Tomás de Torquemada per dotarsi di una forza militare autonoma, subordinare la nobiltà, affermare la propria supremazia giurisdizionale e quindi gettare le basi un potere imperiale che di lì a pochi anni una serie di combinazioni dinastiche avrebbe consegnato a Carlo V. Alla fin fine, infatti, la decisione di espellere gli ebrei fu anzitutto politica, come ben capì Niccolò Machiavelli, che nel Principe tributò un memorabile elogio a Ferdinando il Cattolico il quale, «per potere intraprendere maggiore imprese, servendosi sempre della religione, si volse a una pietosa crudeltà cacciando, e spogliando, dal suo regno "e marani: né può essere questo esemplo più miserabile né più raro". Con quello straordinario ossimoro, pietosa crudeltà, il segretario fiorentino non faceva altro che trarre dalla "realtà effettuale delle cose" la lezione impartita dal re d'Aragona.» Ma mentre il primo sarebbe stato messo al bando per l'empietà con cui aveva indicato nella religione un efficacissimo instrumentum regni, il secondo sarebbe diventato il fondatore del mito dei Re cattolici quali implacabili avversari dei nemici della fede, per questo benedetti da Dio con i nuovi e immensi imperi americani: mito costitutivo di in una tenace e cocciuta hispanidad protrattasi fino al secolo scorso, propensa a trasformare il pregiudizio identitario in missione storica. Ed è sulle origini del pregiudizio, primo fra tutti quello antisemita, che questa densa sintesi getta luce, invitando a riflettere sulle vecchie e nuove forme che esso assume nel presente.

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