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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2011 alle ore 08:13.
La storia è finita, il romanzo è morto e anche l'italiano non si sente tanto bene. Radicalizzando il dibattito, le risposte all'appello di Gabriele Pedullà (Scrittori, bisogna avere stile!) hanno spostato l'attenzione dallo stile alla lingua: per Giglioli, «la lingua ha perso carisma»; per Policastro, «ciò che manca ai romanzi nostrani è più propriamente la lingua». E così – dopo secoli e secoli di questione della lingua – siamo finalmente giunti a discutere la questione della non-lingua, che è un po' come trovarsi dal cappellaio matto a festeggiare il non-compleanno di Alice. Se, infatti, è possibile immaginare una letteratura senza stile (o persino Senza scrittori, come recitava il titolo di un documentario di Cortellessa), è più difficile pensare che possa esisterne una senza lingua.
Eppure la questione c'è, e a ben guardare ci sono anche – e prosperano – il non-stile e la non-lingua. Per stile non-stile si può intendere qualcosa di analogo a categorie merceologiche come il sapone non-sapone o il tessuto non-tessuto: un prodotto artificiale basato sull'imitazione di uno naturale.
Nella fattispecie, su un finto parlato del tutto convenzionale, che nessuno parla – in realtà – ma si è ormai cristallizzato in uno standard facilmente riproducibile, fatto di frasi brevi, interiezioni, esclamazioni, di qualche ingenua sgrammaticatura: «Non è possibile! Ogni volta che mi piace uno, Giulia è lì che ci parla e fa la deficiente. Guarda che è pazzesca. Sembra che lo fa apposta. Lei prima Palombi lo odiava e ora eccola lì che ci parla» (Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo).
Lo stile non-stile, nella sua migliore interpretazione, tende a far finta di non esserci: si mimetizza nella precisa intenzione di non distrarre il lettore dalla trama. Un maestro è stato, in questo, Andrea De Carlo, alfiere di quella che – in una polemica simile di circa vent'anni fa – veniva definita «lingua di plastica». Perché appunto non si può dire che De Carlo non abbia una lingua. La sua, anzi, si è sempre basata su alcuni caratteri molto riconoscibili, tra cui proprio i prefissati con non (non-comprensione, non-interesse, non-responsabilità), secondo un meccanismo analogo a quello della neolingua orwelliana, in cui le parole negative erano espunte: non bad "cattivo", ma ungood "nonbuono".
La non-lingua (cosa diversa dall'antilingua di cui parlava Calvino in una polemica simile di circa cinquant'anni fa) consiste in un passivo adeguamento ai modelli espressivi imperanti. Sia chiaro: usare una non-lingua significa – oggi come in passato – scrivere bene («oggi tutti scrivono bene, e ciò è detestabile»re). Solo che da noi, fino alla metà del secolo scorso, scrivere bene voleva dire usare una lingua morta: l'italiano letterario codificato sulla base dei classici. Da quando, negli anni Sessanta del secolo scorso, l'italiano ha preso a diffondersi come lingua d'uso anche parlata, scrivere bene significa usare una lingua semplice e impressiva come quella dei giornali. In entrambi i casi, un riflesso condizionato: dal l'ottocentesco aulicismo d'inerzia (per riprendere una definizione di Mengaldo), al l'odierno italiano senza sforzo (per parafrasare un titolo di Pedullà).
Nel frattempo, però, se l'italiano letterario è progredito, lo si deve agli scrittori che hanno scritto male. Come Pirandello, che – in una polemica simile di circa un secolo fa – si difendeva dall'accusa di scrivere male, distinguendo nettamente tra lo scrivere bene (cioè in maniera funzionale alla finzione) e lo scrivere bello (cioè alla D'Annunzio). Come Manzoni, che alla fine del primo tentativo di romanzo si disperava («scrivo male scrivo male a mio dispetto»); e riscrittura dopo riscrittura – fuori la questione della lingua infuriava violenta – non sarebbe mai riuscito a soddisfare del tutto il palato fine dei critici coevi.
Uno degli ultimi a scrivere male, in questo senso, è stato l'Aldo Nove di Woobinda; uno che scrive bene – molto bene – è Baricco; una che scrive bello è la Mazzantini di Non ti muovere («gli storni affollavano la luce cinerea, folate di piume e garriti, chiazze nere che oscillavano, si sfioravano senza ferirsi, poi si aprivano, si sperdevano, prima di tornare a serrarsi»).
Lingua o non-lingua: questo è il problema. Nell'ultimo mezzo secolo, la narrativa italiana ha oscillato continuamente tra il rifiuto per l'inerziale medietà (la neoavanguardia, la lingua ipermedia degli anni Novanta) e la sua accettazione (gli anni Ottanta e appunto gli anni Zero). Un modo per uscire dal solco di questo pendolo potrebbe essere, oggi, valorizzare un nuovo e diverso scrivere "male", nutrito non dai dialetti e dalla tradizione, ma da lingue altre e da altre culture. L'italiano lingua seconda della cosiddetta «letteratura migrante», che – potenziato dalla reazione tra la nostra lingua e le lingue di paesi lontani – si presenta sulla pagina con la forza di una lingua al quadrato.
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