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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2011 alle ore 08:13.

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Insieme ad altri primati, noi umani non possiamo fare a meno di creare delle autorità in cui ci riconosciamo, e, allo stesso tempo, di distruggere le autorità che incarnano idee o valori che non capiamo o ci infastidiscono. Difendiamo o attacchiamo le autorità socialmente costituite, spesso aderendo al semplice impulso di farlo. E questa dinamica dell'etologia umana non si applica solo ai leader politici, ma anche alle autorità scientifiche. Il povero Charles Darwin è diventato un simulacro verso il quale sono maturati sia una sorta di culto, che a volte produce l'effetto "Darwin è vivo e lotta insieme a noi", sia il desiderio incontenibile di minarne la pervasiva credibilità scientifica. Non sorprende che creazionisti, fanatici religiosi o politici e scienziati falliti fraintendano Darwin, nella speranza di cancellare l'impatto degli avanzamenti scientifici e miglioramenti della cultura laica avvenuti grazie al suo impulso. È più interessante se lo fanno degli scienziati credibili quanto lui.
Negli ultimi decenni si è scoperto che, accanto alla tradizionale ereditarietà genetica, riguardante i geni contenuti nella sequenza lineare di basi nucleotidiche di cui è fatto il genoma, esiste un'ereditarietà cosiddetta epigenetica. Cambiamenti indotti dal l'ambiente a livello di strutture del genoma che controllano l'espressione dei geni, possono trasmettersi per alcune generazioni. Questa novità ha portato alcuni scienziati a scrivere che è in corso la rivalutazione di Lamarck e della sua teoria dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, per cui gli studi sull'ereditarietà epigenetica ridimensionerebbero il darwinismo.
In realtà, le cose stanno esattamente al contrario. Infatti, volendo giocare a leggere le recenti scoperte alla luce della scontata diatriba Darwin vs Lamarck, queste dimostrano che Darwin ha ragione... anche là dove sbaglia. E così si conferma quanto sia nel giusto quel genio assoluto della biologia molecolare che è il premio Nobel Sydney Brenner, quando stigmatizza l'ignoranza degli scienziati che deambulano negli odierni laboratori e aule, in merito alla storia degli argomenti che studiano. Perché questa ignoranza fa danni!
La questione dei rapporti tra Darwin, Lamarck e il problema dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti è chiara a chiunque conosca il contenuto di La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico, pubblicato da Darwin nel 1868. La monumentale opera può ora essere apprezzata nell'edizione per i Millenni Einaudi, curata ottimamente da Alessandro Volpone, che ha scritto un erudito e lucido saggio di inquadramento generale, e con prefazione di Telmo Pievani (pagg. XCVIII + 916, € 85).
In quell'opera, Darwin prende una cantonata. Il naturalista inglese affronta l'elemento che ritiene più importante della sua teoria sull'origine delle specie. Che non è la selezione naturale, ma la variazione. Darwin sa che sta rivoluzionando il modo di pensare in biologia, insistendo sulle variazioni individuali. Queste, dopo Darwin, non sono infatti più considerate imperfezioni dovute al materializzarsi di forme platoniche immutabili. Diventano la vera realtà biologica. E la selezione naturale è una necessità, cioè una legge di natura, che opera automaticamente data l'esistenza di variazioni individuali che producono vantaggi differenziali. Quindi il problema a cui Darwin ha lavorato con più dedizione è quello della natura, dell'origine e della trasmissione da una generazione all'altra delle variazioni che un allevatore o la selezione naturale usano per generare nuove razze o specie, con specifiche caratteristiche.
Nella Variazione propone una complessa teoria dell'ereditarietà, che definisce, con estrema prudenza, «ipotesi provvisoria della pangenesi». L'ereditarietà sarebbe dovuta alla trasmissione di "gemmule", particelle materiali che trasportano alle generazioni successive le proprietà della variazione. Queste particelle, prodotte direttamente dagli organi che vengono modificati dall'interazione dell'organismo con l'ambiente – l'interazione con l'ambiente è fondamentale e per Darwin causa meccanicamente le variazioni individuali – consentirebbero di trasmettere sia le variazioni spontanee sia quelle acquisite, attraverso l'uso degli organi stessi, nel corso della vita. Le particelle vanno quindi a concentrarsi nei gameti maschili e femminili, mescolandosi al momento della fecondazione e quindi dando luogo a un organismo che è un amalgama delle caratteristiche dei genitori.
Entrambe le assunzioni della teoria della pangenesi, cioè la modificabilità specifica dei fattori ereditari per interazione con l'ambiente e il mescolamento dei tratti ereditari, al momento della fecondazione, sarebbero state confutate da lì a pochi anni. La scoperta che i cromosomi creano una continuità materiale tra le generazioni consente di costruire l'ipotesi controintuitiva, rivelatasi corretta, che l'ereditarietà consiste nella trasmissione di una sostanza (dopo Watson e Crick, il Dna), che contiene l'informazione per costruire l'organismo. Ma che è fisicamente impermeabile all'acquisizione di informazioni specifiche sulla base di modificazioni indotte dall'ambiente. Inoltre, la riscoperta delle leggi di Mendel dimostrerà che i fattori ereditari non si mescolano.
La teoria della pangenesi è sbagliata. Ma è anche la teoria scientificamente più plausibile che si può concepire, quando Darwin scrive, di come potrebbero venir ereditati i caratteri acquisiti. E le recenti scoperte sull'ereditarietà epigenetica danno eventualmente ragione a Darwin. Perché l'ereditarietà dei caratteri acquisiti non è una teoria lamarckiana. Lamarck la dava semplicemente per scontata, ed esisteva dai tempi di Ippocrate. Quello che sosteneva Lamarck (il quale era evoluzionista e meccanicista quanto Darwin), era che l'ambiente in continuo cambiamento crea dei nuovi "bisogni", a cui gli organismi rispondono usando di più o di meno, nel corso della vita, alcuni tratti, per cui si producono differenze individuali nell'accentuazione o attenuazione di questi tratti, trasmesse quindi ereditariamente. Si pensi al classico esempio del collo della giraffa.