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Questo articolo è stato pubblicato il 23 settembre 2011 alle ore 10:36.

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Cari lettori della Domenica, credo sia giunto il momento per riproporvi un gioco che vi aveva tanto appassionato sette anni fa, in un momento di disorientamento morale e civile che presentava notevoli analogie con quello attuale. È il gioco – ve lo ricordate? ne avevate scritte di bellissime a centinaia – è quello delle «Favole in cento parole». Un gioco che ha regole precise. Sono quelle, semplicissime, ma ben definite e rigorose, che ora vi riproponiamo. Trasgredirle significa raccontare una cattiva favola, che è una delle cose peggiori che possono capitare. Una favola che non funziona, con una morale stramba, poco comprensibile. O addirittura - horribile dictu - senza una morale!

Dunque la prima regola, la più semplice di tutte, è proprio questa: una favola (attenzione, non una "fiaba", anche se un pochino le assomiglia) deve avere una morale.

Seconda regola: questa morale deve avere un valore generale. Deve esprimere, direbbero i filosofi, una massima universale. Un bel giorno il lupo si propose di sbranare l'agnello. Però non voleva farlo in modo aperto, ma sotto un'apparenza di legalità. Quindi, ci dice Fedro, «trovò da litigare». Quel che successe dopo lo sapete già. È esattamente ciò che ci conduce direttamente alla morale (la massima universale) che questa storiella ci vuole insegnare: «Contro chi ha deciso di fare un torto non c'è giusta difesa che tenga». Questi troverà sempre la scusa buona per far apparire giustificata la propria azione.

È una massima che vi sembra convincente? Giusta? Bene, se la risposta è sì, è tutto merito del modo in cui l'azione descritta rappresenta un esempio ben scelto, un esempio ben riconducibile alla vita reale. (E se la risposta è no, miei cari, inventatevi un'altra storia, più adatta alla vostra morale. Così sarete già entrati nel gioco!).

Dunque la terza regola è: partire dalla realtà per approdare a verità universali (come faceva Esopo) e non fare l'inverso (come hanno fatto dopo di lui molti altri, meno bravi, favolisti). È bene cioè che l'insegnamento morale della favola sia reso evidente dall'azione svolta dai personaggi.
Queste semplici regolette (ma non sono ancora tutte) non ce le siamo inventate. Le abbiamo estratte dalle riflessioni che il più delizioso degli illuministi tedeschi, Gotthold Ephraim Lessing, ha svolto nei suoi «Trattati sulla favola» (Carocci).

Si tratta di cinque trattatelli, l'ultimo dei quali parla «Della particolare utilità delle favole nelle scuole». Insegnanti, avete capito bene? Perché questo bel gioco non provate a proporlo in classe ai vostri alunni? C'è da scommettere che darà buoni frutti, dalle elementari fino all'ultimo anno di università. Le capacità che stanno alla base della scrittura di una buona favola - quella di esprimersi in maniera efficace, semplice e concisa, unita allo sviluppo del senso morale - sono utili in ogni campo dell'apprendimento e della vita.

Lessing, autore a sua volta di bellissime favole (raccolte in «Favole in tre libri», Sellerio), ha saputo rendere "esopica" persino questa stessa esigenza di chiarezza ed essenzialità: un uomo possedeva un eccellente arco d'ebano, preciso e potente; ne era così fiero che decise di farvi incidere una splendida scena di caccia. «Ora l'arco era perfetto. Lo impugnò soddisfatto, lo tese, e quello si spezzò. Lo stesso vale per la favola, che senza fronzoli va dritta al bersaglio».

La quarta regola ormai dovrebbe essere chiara: togliere piuttosto che aggiungere, andare subito al dunque, non abbellire con particolari inessenziali. Ogni arzigogolo che non sia importante per ricavare dall'azione scelta come esempio un'idea generale non farà che confondere le idee.

Molte favole sono brutte per questo: perché si allontanano dall'ideale di semplicità proposto da Esopo. Anche il fatto di volerle scrivere in versi complica inutilmente le cose, distoglie l'attenzione dalla loro funzione primaria. Meglio dunque la prosa. E che sia la più breve possibile (per favore, cari lettori, non più di cento parole!).

La quinta regola è più che altro un suggerimento, e non è obbligatoria (e infatti la favola dell'arco ne è un'eccezione): usare gli animali come personaggi. Perché? Proprio perché è il modo più veloce per arrivare al dunque. Per far capire in una parola con che tipi abbiamo a che fare. Un lupo, un agnello, un gallo, una martora, una volpe, un usignolo, una cornacchia: (per questo ci appare così immediata e chiara la battuta "profetica" di Woody Allen: Il leone e il vitello giaceranno insieme ma il vitello dormirà ben poco). Sarebbe quindi un errore, un'altra inutile complicazione, il voler introdurre animali con caratteristiche anomale: una volpe poco furba, un lupo buono, una pecora coraggiosa, una cicala previdente.

Anche questa regola Lessing l'ha tradotta in favola. L'asino disse a Esopo: «Se dovessi tirar fuori un'altra storiella su di me, lasciami dire qualcosa di veramente intelligente e sensato». «Qualcosa di sensato a te! - ribattè Esopo - Come sarebbe possibile? Non direbbero allora che l'asino son io e tu il moralista?».

Scriveteci le vostre favole in non più di cento parole cercando di seguire le regole enunciate sopra. Potete adattare vecchie favole alla realtà di oggi, variandole a vostro piacere, magari rovesciandone la morale, oppure inventarne di completamente nuove. Le migliori verranno pubblicate sui prossimi numeri de Il Sole-24 Ore Domenica.

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