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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2011 alle ore 08:13.
Quasi dimenticato nel Regno Unito, per ora completamente sconosciuto in Italia. A battersi da anni in maniera caparbia perché l'opera di Bryan Stanley Johnson non cada nell'oblio è Jonathan Coe, autore invece ben noto ai lettori di entrambi i paesi. A Johnson, esponente dell'avanguardia londinese suicida appena quarantenne nel 1973, Coe dedicò nel 2004 una biografia in uscita a breve per Feltrinelli (Come un furioso elefante, 528 pagine, € 28,00) e da allora non smette di invitare critici o studiosi a riscoprire una figura eclettica e controversa, ritenuta centrale per mettere a fuoco alcuni interrogativi centrali della ricerca letteraria contemporanea. «Quando ho deciso di occuparmi di lui alla metà dei Novanta – spiega – pensavo che avrei raccontato la storia di un uomo, niente di più. Ma se le conquiste di quest'uomo, e soprattutto i suoi fallimenti, rappresentano qualcosa di più vasto? Se vanno diritte al nocciolo di quello che significa essere uno scrittore? È questo che ho scoperto mentre raccontavo la storia di B.S. Johnson: che i suoi sforzi e i suoi conflitti erano anche i miei sforzi e i miei conflitti e quelli di ogni altro scrittore, esplicitati e ingranditi mille volte».
Artista poliedrico, geniale, con un'altissima considerazione di sé (solo Joyce era al suo livello, amava ripetere), Johnson visse solo per la narrativa, pur comprendendo che si trattava di un ambito irrilevante in una contemporaneità poco attenta all'indagine artistica. «Probabilmente mai come in questa biografia – aggiunge Coe – arrivo ad affrontare così da vicino la domanda fondamentale che mi assilla ogni giorno: perché scrivo? Perché una persona scrive? Johnson fu torturato per l'intera vita dalla certezza assai radicata in lui che la scrittura era un'attività inutile, una forma di narcisismo, capace di allontanare un intellettuale dai temi davvero importanti che avrebbe dovuto affrontare: quelli politici. Ma non poteva fare a meno di scrivere e pubblicava opere sperimentali, ritenendosi l'erede della tradizione modernista di inizio Novecento. I miei libri hanno una impostazione formale molto diversa dai suoi, ma il punto di vista di Johnson su letteratura e società non ha smesso di offrimi spunto per profonde riflessioni personali sul lavoro che faccio, sulla sua natura e sugli effetti che è in grado di produrre».
Ciò che rende Johnson importante nella storia della narrativa inglese del secolo scorso non è, dunque, il valore dei romanzi, bensì l'insicurezza e la vulnerabilità di un uomo sempre inquieto, mai pago dei risultati raggiunti, teorico di una forma antirealistica ma osservatore attentissimo dei mutamenti in corso nella società. Precisa Coe: «Era un romanziere autentico e speciale, uno tra i pochissimi che ogni mattina prendono in mano la penna o accendono il computer e si pongono sempre la domanda: davvero ne vale la pena? Che scopo c'è? Senza la premessa di questo dubbio, che ho appreso proprio da Johnson, non saremmo in grado di comporre qualcosa di valore. Perché sono profondamente convinto che la scrittura non sia un hobby, anche se ci è consentito trovarla gradevole, e neppure una forma di terapia, anche se può essere terapeutica. È un atto di fede, magari folle, nell'idea che aggiungendo qualcosa al mondo forse potremmo migliorarlo. La posta in gioco è alta e, prendendo B.S. Johnson come esempio, dovremmo disfarci del nostro ridicolo senso di autosvalutazione che, a mio avviso, è di natura borghese. E da lui dovremmo imparare a dire le cose come stanno. Ammettendo le nostre responsabilità verso la forma letteraria, verso i lettori, verso la tradizione che abbiamo ereditato. Non sono molti gli autori che, al pari di Johnson, sono disposti a fare una cosa simile. Mi sembra un ottimo motivo per continuare a leggerlo e per tentare di offrire risposte alle domande che ci pone».
Nonostante i loro caratteri siano indubbiamente diversi («reagiva alle sue frustrazioni con la rabbia mentre io ho la tendenza a rifugiarmi in una malinconica rassegnazione»), Coe ritiene di aver imparato molte cose di fondamentale importanza durante i sette anni trascorsi lavorando alla biografia e pensa di avere tratti in comune con B.S. Johnson sotto il profilo delle scelte estetiche. «Siamo entrambi due pessimisti capaci di trovare conforto nell'umorismo – puntualizza –. E ancora: siamo due scrittori ossessionati dal l'importanza della forma e dell'architettura dei testi, decisi a usare la narrativa per documentare i cambiamenti in corso nel mondo e offrire un po' di svago ai lettori». Per quanto, poi, riguarda i mutamenti in atto, Coe non vede nero nel futuro come potrebbe apparire dalle pagine di I terribili segreti di Maxwell Sim, il romanzo uscito lo scorso anno in cui dava conto della disperata solitudine di un uomo che impazzisce nel corso di un lungo viaggio in auto da Londra alla Scozia durante il quale tenta inutilmente di mantenersi lucido dialogando con la voce del navigatore satellitare della macchina. «Non è la prima volta che un mio protagonista è un individuo isolato e depresso. Certo, questa volta ho usato la tecnologia per dar conto del suo dramma – conclude –. Ma io non sono Maxwell Sim nonostante sia un cinquantenne che ricorda bene la vita prima della nascita di Internet. Del resto è naturale avere un po' di timore di ogni novità. Tuttavia vedo ogni giorno le mie figlie usare a lungo la rete per chattare e questo non le ha rese esseri umani peggiori. Nel loro quotidiano i rapporti personali diretti restano forti e solidi. Sono convinto che il mio compito come uomo e come scrittore sia di resistere al richiamo della nostalgia e condividere l'entusiasmo delle mie figlie per il presente e per la vita».