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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2011 alle ore 08:15.

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Nella vetrinetta dello studio, dove Picasso conservava i suoi ricordi, c'era un paio di guanti neri a fiorellini rosa. Quando, nel caffè dei Deux-Magots, aveva notato una bruna avvenente, Dora Maar, Pablo aveva cinquantaquattro anni e un ciuffo beffardo sulla fronte. L'aveva osservata togliersi lentamente i guanti per iniziare uno strano gioco: con un coltello affilato colpiva sempre più rapidamente lo spazio tra un dito e l'altro della piccola mano, senza fermarsi quando si feriva.
Ma quali erano i colpi giusti? In quel gioco sadomasochista si riassumeva perfettamente l'orientamento verso la vita di quella geniale fotografa, intima dei surrealisti e dell'estrema Sinistra. A questa bellezza austera, colta e intelligente, Nicole Avril dedica un commosso monologo, in cui, identificandosi con la musa di Picasso ricostruisce la sua storia dolorosa e densa. Una sfida vinta, malgrado qualche sbavatura e qualche eccesso di interpretazione.
Le unghie delle magnifiche mani di Dora, ricorda un amico dell'artista, Brassaï – Gli artisti della mia vita, Abscondita Editore – erano laccate di rosso. La venticinquenne si arrese senza resistere a Pablo, affascinato dalla scura limpidezza del suo sguardo e dalla note gorgheggianti della sua voce. In quel periodo Picasso si trovava in bilico tra il naufragio del suo matrimonio con un'aristocratica danzatrice dei balletti russi, Olga, e il declino della sua recente relazione con la modesta Marie-Thérèse, che lo amava pur detestando i suoi quadri. Allergico a ogni tipo di rottura, in cui vedeva un preavviso della morte, il pittore era riluttante a troncare definitivamente. Sistemata Marie-Thérèse in un sobborgo, si dedicò alla nuova relazione. Dora stimolava il suo impulso di domarla e di distruggerla, il che non gli impediva di subissare l'altra di lettere infiammate.
Malgrado il successo e le innumerevoli avventure, Picasso era spesso devastato da un'intollerabile sensazione di disastro, in cui la vanità della vita, il terrore di malattie immaginarie e la sensazione di perdere l'ispirazione si mescolavano dolorosamente. La sofferenza scatenata in lui dalla Guerra civile spagnola esacerbò quella ferita interiore. Nel nuovo, grande studio di rue des Grands-Augustins, trovatogli da Dora, Pablo dipinse Guernica, in ricordo della strage perpetrata dai franchisti in quell'anno, 1937.
Per Picasso, le donne si dividevano in due categorie, «dee e pezze da piedi», e godeva sommamente a farle precipitare da una categoria all'altra. «Sei troppo alta, troppo bella, troppo libera», la rimproverava, imbarazzato dalla sua statura. Per indebolirla, la convinse ad abbandonare la fotografia per la pittura, dove lui dominava indiscutibilmente il campo. In quel periodo le due rivali affiorano sovente, insieme o separate, nei quadri dello spagnolo, che si divertiva a ritrarle l'una coi vestiti dell'altra. Gli piaceva umiliare Dora, dandole continui motivi di gelosia. Una volta riuscì persino a esasperarla viziando eccessivamente una scimmietta. Poi cominciò a picchiarla fino a farla svenire. Lei resisteva con «l'adorazione regale della vittima». Divenne la celebre figura piangente di tante tele. «Dora, per me, è sempre stata una donna che piange. Sempre …. È importante, perché le donne sono macchine per soffrire». Durante la guerra, Picasso aveva visto la sua gloria crescere irresistibilmente. Dora capì che il loro tempo era finito.
Inutilmente Paul Éluard, che aveva sempre cercato di proteggerla dalla ferocia dell'uomo che idolatrava, le propose di sposarlo. La rottura con l'amato precipitò la Maar in una grave depressione. Con l'abituale crudeltà, Picasso si divertiva a farle incontrare il suo nuovo amore, la giovanissima Françoise Gilot. Un giorno la costrinse persino a dichiarare, di fronte a «quella scolaretta», che tra loro tutto era finito. Dora reagì con una dolente serie di stravaganze. «Era pazza molto prima di diventare pazza!», sentenziò Pablo. Dopo un vano tentativo di scuoterla con l' elettrochoc, lo psicanalista Jacques Lacan, medico di Picasso, la prese in cura e riuscì, se non a guarirla, a farla convivere con la malattia. Ormai la Maar vestiva solo di nero e alternava lunghi periodi solitari a rapide incursioni nella mondanità. Convertitasi al cattolicesimo, Dora spiegava agli amici: «Dopo Picasso c'è solo Dio». Nei rari incontri con l'amato cercava di spingerlo alla religione. «Se continuerai a vivere come hai fatto finora, ti cadrà addosso una tremenda sciagura!». Picasso dava la colpa di quegli sfoghi all'irrazionalismo dei surrealisti che, secondo lui, l'aveva spinta verso la follia. «La vita, commentava, è fatta così, elimina automaticamente i disadatti».
Quattro anni dopo la morte di Picasso, Marie-Thérèse si impiccò. Tredici anni dopo Jacqueline, l'ultima compagna, si sparò alla tempia. Dora sopravvisse a Picasso, chiusa nel suo appartamento tra le opere dell'amato, che si era divertito a dipingere sulle pareti una serie di insetti. Riassumendo il loro legame, aveva detto: «Io non sono stata l'amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone».
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Nicole Avril
Io Dora Maar
traduzione di M. Cavalli,
Colla Editore, Milano
pagg. 198, € 18,50

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