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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2011 alle ore 08:14.

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«Deviassolutamente incontrare Joshua Foer» mi dice la mia amica Mary Carruthers. «È un ragazzo davvero in gamba, viene da Yale ed è molto interessato all'arte della memoria. Ha pubblicato un bell'articolo sul National Geographic». Era l'inizio di novembre del 2007. Per me erano gli ultimi giorni di soggiorno a New York, e le cose da fare prima della partenza si accumulavano in modo minaccioso. Ma Joshua Foer mi aveva mandato una mail molto gentile, chiedendomi di incontrarlo, e non potevo restare insensibile alla presentazione che me ne aveva fatto Mary, che certo di arte della memoria se ne intendeva: aveva scritto sull'argomento due libri molto innovativi, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, e The Craft of Memory. Meditation, Rhetoric, and the Making of Images, 400-1200, entrambi pubblicati da Cambridge University Press. Il secondo è stato tradotto anche in italiano, per le Edizioni della Normale, col titolo di Machina memorialis, che era poi il titolo pensato all'origine, e cambiato dall'editore inglese.
È stato così che, tra una valigia e l'altra, un saluto agli amici e qualche inesorabile dimenticanza, mi sono ritagliata il tempo per incontrare Joshua Foer e per stare a pranzo con lui. L'appuntamento era a Washington Square, all'ingresso della Bobst Library, un grande edificio squadrato che ospita la biblioteca di New York University. È una costruzione recente, non bella, un po' discosta, per fortuna, dalle case di mattone in cui Henry James ha ambientato Washington Square. Ma come avremmo fatto a riconoscerci? Ci ha pensato Joshua, che teneva in mano il numero del «National geographic» dedicato alla memoria e anche una gentile sorpresa: la traduzione spagnola della mia edizione dell'Idea del teatro di Giulio Camillo, di cui ignoravo l'esistenza e di cui mi ha fatto dono. E proprio di Camillo lui voleva parlare con me, del suo progetto di costruzione di un universale teatro della memoria, che incarnava i sogni di una intera epoca (i lettori del Domenicale ricorderanno forse l'articolo che gli ho dedicato tempo fa, L'alchimista delle parole, 4 luglio 2010). Siamo andati a pranzo in uno dei ristorantini che abbondano nella piazza, e nelle strade del Greenwich Village, e via via che il tempo passava, e la conversazione fra noi si animava, ero sempre più contenta di aver trovato il tempo per quell'incontro. Avevo di fronte un giovane molto preparato, curioso, determinato e gentile, con un percorso di studi davvero intrigante: aveva studiato scienze a Yale, biologia se ricordo bene, e da subito si era dedicato al giornalismo scientifico. In particolare, mi disse, stava scrivendo un libro sulla memoria, per il quale aveva trovato un grosso editore, Penguin, che aveva dato fiducia al suo progetto. Si stava interessando a come le neuroscienze studiano i casi di amnesia e di memoria eccessiva. Secondo i dettami del giornalismo più efficace e seguendo la tradizione di Alexander Luria e di Oliver Sacks, non si fermava però al "caso", ma si interessava agli individui, alle loro storie, alla loro vita quotidiana, e andava a trovarli di persona, da San Diego a Salt Lake City. Nello stesso tempo era molto interessato agli studi sull'arte della memoria nel Medioevo e nel Rinascimento. Conosceva i testi classici di Paolo Rossi e Frances Yates, e le ricerche che Mary Carruthers e io stavamo facendo. Era davvero lusinghiero vedere un giovane scienziato così addentro a un settore di ricerca umanistica; nello stesso tempo avvertivo qualcosa di profondamente diverso che mi colpiva e che in un certo senso era una sfida per me. Joshua si interessava alla tradizione antica, medievale e rinascimentale dell'arte della memoria perché lui quell'arte la praticava. Quel che per me era un insieme di pratiche, affascinanti ma lontane, che mi aiutavano a orientarmi nel Rinascimento, a capire qualcosa dell'intreccio fra parole e immagini, e del rapporto tra filosofi, scrittori, artisti, per Josh era qualcosa che stava sperimentando di persona. Aveva cominciato, mi ha raccontato, a frequentare da giornalista i campionati di memoria e ne era rimasto affascinato, fino a sottoporsi a un lungo allenamento e a parteciparvi di persona: nel 2006 aveva vinto il campionato americano, bruciando gli avversari per la rapidità con cui aveva memorizzato mazzi di carte, poesie, liste di nomi e di numeri.
Ho ritrovato tutto questo nel suo libro, che è uscito quest'anno e ha avuto un incredibile successo: è stato in classifica dei bestseller del «New York Times» e Amazon l'ha scelto fra i dieci migliori libri. Mi piace pensare che il segreto del suo successo stia anche in questo singolare impasto di cultura umanistica e scientifica, di antico e moderno. Ma è indubbio che il libro affascina soprattutto per la qualità della scrittura.
Con un forte senso dello humour e umana simpatia l'autore ci presenta una galleria indimenticabile di personaggi, come Tony Buzan, che ha inventato nel 1991 il campionato di memoria, gira fra Cina, Messico, Australia, Stati Uniti, e in Inghilterra non rinuncia alla sua personale vettura, un taxi anni 30 color avorio. E soprattutto Ed Cooke, il personal coach dell'autore, che gli insegna a costruire il suo primo palazzo della memoria a Central Park, in un pomeriggio in cui spira un vento gelido, perché «il freddo fa bene al cervello», il giovane maestro che attribuisce alla mnemotecnica anche una funzione terapeutica: «quanto più riempiamo le nostre vite di memorie, tanto più lentamente il tempo sembra scorrere». E i vari partecipanti ai concorsi di memoria, come una ragazza austriaca di quindici anni, Corinna, che per ricordare una poesia appena sentita ne associa le diverse parti non alle immagini, ma alle emozioni che le suscitano. Il fascino del libro sta proprio in questo suo andirivieni fra tecniche e idee antiche (si citano Petrarca e san Tommaso, Pietro da Ravenna, Giulio Camillo, Giordano Bruno) ed esperienze di oggi, vissute al ritmo di un giovane che si sposta senza problemi tra America ed Europa e, mentre pratica la costruzione mentale di luoghi e immagini, usa internet ed è familiare con tutte le risorse della moderna tecnologia. Si affaccia da giornalista, si diceva, a un mondo di cui si innamora. L'ultimo capitolo ci racconta il momento del trionfo, quando vince il campionato americano di memoria, e insieme il momento del distacco: potrebbe presentarsi ai campionati mondiali, ma sceglie di dedicare il suo tempo a altro, ad esempio a scrivere questo libro.

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