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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2011 alle ore 08:14.

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Il sole d'agosto mi acceca dinanzi agli splendidi palazzi della capitale. Il barocco romano mi trascina in un altro mondo, quello dell'Occidente. Quel giorno il caldo è umido e soffocante. Mia figlia vuole mangiare cibo cinese. Decidiamo di andare verso la stazione Termini dove è stato appena aperto un nuovo ristorante cinese.
Arrivando nei paraggi del ristorante, una strana sensazione mi attraversa, quasi una visione; in un attimo il quartiere della stazione Termini mi sembra un universo simile alla corte dei miracoli in cui nella Parigi medievale giocolieri, ladri ed emarginati si riunivano, ma somiglia anche alla celebre piazza Jama al Fna a Marrakesh, uno spazio definito non da un patrimonio architettonico ma dalla moltitudine eterogenea della gente che lo occupa, girovaghi di tutte le provenienze.
In quel momento la zona della stazione Termini si sovrappone ai miei ricordi di Marrakesh; entrambe sono attraversate dai mille popoli della Terra, mille lingue e mille culture che sembrano dar vita a un mondo senza frontiere; la varietà fonetica delle diverse lingue mi sembra tradursi nei canti e nelle melodie che il musicista e compositore ungherese Bela Bartok andava a cercare nell'Algeria degli anni 20. Un'immensità di popoli – slavi, indiani, africani, arabi, asiatici – si mescola attorno alla stazione Termini, sulle strade e sui marciapiedi del nuovo universo globale. La moltitudine prende forma ma non acquista un reale contenuto. E in quell'attimo penso che capisco i leghisti, semplicemente perché non comprendo più nulla: Roma sembra un'altra cosa, le frontiere del mondo si sono diluite sui binari delle stazioni d'Occidente.
Stiamo per arrivare al ristorante. Nella capitale della coda alla vaccinara e degli spaghetti cacio e pepe di cui sono ghiotto, devo andare a mangiare involtini primavera, anatra laccata, riso alla cantonese, pollo al bambù. Tutto mi sembra paradossale, il cibo romano diventa cibo etnico mentre il cibo cinese è quello globale, ormai senza confini. Gli involtini primavera volano da Pechino a Roma. Sono passati oltre due anni da quel giorno di agosto. Era appena terminato il mio mandato di parlamentare della XV legislatura: avevo lavorato sul tema dell'integrazione, soprattutto sul modo di strutturare un islam italiano, ma la vita politica del Paese decise altrimenti, e i progetti rimasero negli archivi del Parlamento.
Molte cose accaddero in seguito. Il 14 settembre 2008 fui chiamato a New York da un organismo delle Nazioni Unite a svolgere una conferenza su «Democrazia, mondo arabo e dialogo delle civiltà»; quello stesso giorno l'economia mondiale tremò a causa del crollo della banca Lehman Brothers a New York. Sentivo irrazionalmente che non si trattava soltanto di una crisi economica, ma di qualcosa di più ampio, che investiva tutti gli elementi su cui le società si erano costruite almeno a partire dalla Rivoluzione francese; forse una crisi di civiltà.

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