Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2011 alle ore 19:47.

My24

Leggere Nativi digitali di Paolo Ferri, uno dei maggiori esperti di scuola e nuove tecnologie, avendo in mente i dubbi, puntuali e profondi, che Roberto Casati espone qui a fianco ha prodotto in me un singolare effetto filosofico. E se le risposte ai quesiti di Casati – mi sono chiesto – oltre che a essere in qualche modo presenti nel libro di Ferri, ci spingessero dritti nelle braccia del più grande filosofo-educatore del Novecento, il pragmatista americano John Dewey?

Le sue idee di una scuola che educhi alla creatività, all'«arte come esperienza», alla partecipazione attiva, alla cooperazione tra individui non atomizzati, e dunque alla democrazia come "medium cognitivo" per la soluzione dei problemi che si hanno in comune, potevano sembrare difficili, se non impossibili da realizzare ai suoi tempi. Pura utopia, avrebbero detto i conservatori. Ma non è che invece, proprio grazie alle nuove tecnologie, si stanno rivelando del tutto a portata di mano? E che proprio osservando queste specie di alieni che sono i nativi digitali – alieni per noi, figli di Gutenberg – la scuola immaginata da Dewey diventa non un sogno ma la naturale conseguenza di un sano realismo, basato sulla semplice descrizione e constatazione delle capacità cognitive che già albergano nelle menti dei nostri pargoli?

L'approccio al sapere dei nativi digitali – ci dice Ferri – si basa sull'esperienza, è meno dogmatico del nostro, è attivo e non sopporta che i contenuti vengano semplicemente trasmessi dall'alto, in un rapporto uno-molti, com'è tipicamente quello tra l'insegnante e la classe. La proposta di Ferri è quindi quella di sfruttare a scopi formativi l'"intelligenza digitale" che i nativi sviluppano per conto proprio, fuori dalle aule scolastiche, armeggiando iPad, eBook e smartphone e rimanendo sempre connessi coi loro socialnetwork, non solo per futili motivi, ma per essere sempre pronti a condividere il proprio sapere e a confrontare i propri gusti e le proprie esperienze. Il learning by doing, la capacità di risolvere problemi, l'interattività, la socialità, la gratuità, la creatività, oltre che a essere tutti concetti profondamente deweyani, sono abilità che i nativi digitali cominciano ad apprendere a partire persino dai loro primi videogiochi. «I giochi – scrive Ferri in uno dei due passi in cui Dewey è ricordato esplicitamente – non si limitano a fornire un fondamento logico per l'apprendimento: ciò che i giocatori imparano è immediatamente utilizzato per risolvere problemi avvincenti che hanno delle conseguenze reali nel mondo del gioco».

E ancora: «Un videogioco può essere considerato come un ambiente immersivo digitale che è costituito da un insieme di problemi da risolvere». «I giochi più efficaci dal punto di vista dell'apprendimento sono i giochi che ammettono una gamma molto vasta di soluzioni» e «il gioco diviene un ambiente esterno digitale che permette di mettere alla prova le differenti rappresentazioni interne delle possibili soluzioni a quel problema».

Più in generale, l'uso di internet e degli altri strumenti digitali sta modificando la configurazione neurale delle nostre menti, che, come ha dimostrato Giacomo Rizzolatti, presenta un elevato tasso di plasticità anche in età adulta. Lo dice anche Nicholas Carr in Internet ci rende stupidi?, da poco pubblicato da Cortina, traendone però conseguenze catastrofiche. Illegittime secondo Ferri, il quale osserva che «una trasformazione e un cambiamento delle attivazioni neuronali sono ormai una prova scientifica ma certamente, come rilevano anche gli studi di Battro, Koizumi e altri neuro scienziati, non siamo ancora in grado di verificare sperimentalmente gli effetti positivi o negativi di questa trasformazione».

Anche in questo dobbiamo seguire Dewey e adottare l'approccio sperimentale dell'imparare facendo, così come gli stessi programmatori di oggi tendono ad assomigliare più a dei bricoleurs che a degli ingegneri. Significativamente Ferri accosta a Dewey un'altra grande educatrice, Maria Montessori, mostrando che «gli studenti stessi sembrano suggerire attraverso il loro "stile di apprendimento partecipativo/digitale" nuove modalità didattiche e nuovi stili didattici ai loro insegnanti. Richiedono, cioè, sempre di più, nuove opportunità di "imparare a fare da soli" (Montessori), di essere indipendenti e individualizzare e socializzare il loro stile di apprendimento». I nativi digitali paiono richiedere un più intenso dialogo e una maggiore interazione con i docenti da realizzarsi anche attraverso i media digitali, magari all'interno, di ambienti virtuali per l'apprendimento. Non c'è bisogno di dotazioni particolarmente sofisticate. Non è questione di elettrificazione delle aule, ma di capacità di adattare ai nuovi stili cognitivi dei nativi il setting della scuola. È un'operazione metodologica prima che tecnologica. Essenziale per un'ambiente formativo digitale è ad esempio avere banchi mobili e combinabili che facilitino l'apprendimento e l'interazione di gruppo.

Dewey una volta scrisse che «Non è la perfezione la meta ultima della vita, ma il processo incessante di perfezionare, maturare e raffinare». Se il carattere aperto dei nuovi media interattivi può integrarsi con tale processo di continuo affinamento e perfezionamento, culturale e sociale, possiamo dire che il gioco è fatto: avremo prodotto esattamente quegli spiriti critici attivi, capaci di continuare ad apprendere in tutto l'arco della loro esistenza ciò di cui hanno bisogno oggi le società postindustrali basate sul l'economia della conoscenza.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi