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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2011 alle ore 19:56.

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Dove eravate, dove eravamo negli anni Novanta? Il romanzo di Paolo Di Paolo Dove eravate tutti (Feltrinelli) ci interroga frontalmente sulle nostre responsabilità morali del passato prossimo. Ci racconta di una generazione, quella di Italo Marangoni, il protagonista (nato come l'autore nel 1983), accompagnata dalla presenza quasi costante di Berlusconi «da qualche parte», una generazione scolarizzata e post-ideologica, aliena da fanatismi ma che non ha «mai creduto a niente fino in fondo».

Poi ci racconta dei sessantenni come il padre insegnante in pensione, con l'alito pesante e sempre in fregola, uno dei tanti «Bill Clinton di ministeri e di consigli comunali», inconsapevolmente berlusconiani nei loro discorsi e nel loro immaginario. E ancora ci racconta del nonno socialista, delle madri indispensabili e docili – con tardivo sussulto di ribellione – e di Anita, sorella minore indecifrabile(«la testa come un "luogo acquatico": a galla le passioni del profilo su Facebook e al fondo, come conchiglie, "alcune ostinate convinzioni"»). Nel tono della narrazione lo spaesamento prevale sulla rivolta, il puntiglio intellettuale sulla protesta. Italo, laureando in storia, vuole capire. È un giovane Holden, sentimentale e riflessivo, che intraprende una indagine minuziosa su di sé, sul proprio tempo, attraverso frammenti di memoria e ritagli di giornale.

E anzi tutto il romanzo nasce da una passione – e da una sfida – del genere: «capire come la storia pubblica incrocia quella privata», come l'amore per la sfuggente Scirocco sia influenzato anche dagli scontri del G8 o dalle elezioni di Obama... In una pagina viene riprodotta una lavagna con le parole-chiave del decennio, in un'altra i disegni di tutti gli oggetti scomparsi: mangianastri, cabine telefoniche, polaroid... Altrettante invenzioni grafiche di un vivace romanzo-collage. Le pagine più ispirate sono quelle dove l'autore arriva alla conclusione (tolstoiana o manzoniana) che esiste una dimensione più reale di quella della Storia, anche se non lascia tracce e resta sommersa: il numero delle tazzine che vanno in frantumi, degli amori che si consumano, dei nati e dei morti, e ancora «i pezzi di prato appena tagliato, le case costruite, i pieni di benzina, gli aerei in volo...».

Dirà poi con lucidità quasi aforistica: gli storici cercano le cause e studiano le conseguenze ma tra le e une e le altre «la vita che c'è in mezzo, sparisce». Il romanzo, benché di ispirazione civile, non nasconde una propensione lirica – ad esempio sugli insetti: «alcuni di loro hanno una strana luce dentro» – solo appena insidiata da una poesia cantautoriale alla De Gregori, peraltro citato...).

Ma non vorrei eludere l'interrogativo del titolo. In tutto il libro risuona più o meno larvatamente un j'accuse vibrante contro i padri assenti, e intendo qui i padri come maestri e figure autorevoli, capaci di darci una bussola morale. Tema che accompagna ormai da qualche decennio la pubblicistica e che ha prodotto un intero filone di saggi psicanalitici, sociologici, eccetera. Ma vorrei replicare: i padri si scelgono, proprio come le famigerate "radici"! Averli o meno dipende molto più dai figli che da loro. In un certo senso ogni generazione si ritrova un po' orfana e smarrita, con il difficile (e avvincente) compito di cercarsi da sé i propri padri, di inventarseli anche, se necessario. La mia ad esempio – o buona parte di essa – se lì è andati a cercare troppo lontano, in luoghi un po'esotici, anche perché ci responsabilizzavamo di meno (ricordate, tra gli altri, lo "zio Ho"?). E infatti erano così irreali che li abbiamo abbandonati presto. Italo all'inizio del romanzo ci informa che ha paura del padre, del suo «sguardo scuro», risentito e severo, Non riesce a parlargli. Poi ha una rivelazione: «ma quanti padri è stato mio padre», e lo immagina via via cacciatore giudice, guerriero, mercante... Ma soprattutto: ne percepisce con qualche ansietà la improvvisa regressione, il vuoto anaffettivo che sembra corroderlo dentro, la disturbante asocialità («fa rumore con la bocca quando mangia»), il disordine triste, la vocazione al fallimento, la condizione umiliata (dopo le frustrazioni dell'insegnamento scolastico vorrebbe pubblicare a pagamento un romanzo...).

Qui si schiude il nucleo più autentico, e commovente, del romanzo: Italo scopre che quel disordine e quel fallimento un po' appartengono anche a lui. E allora la lezione "paterna" che apprende è forse l'unica possibile – al di là di ruoli, aspettative pur legittime, giudizi, eccetera, – quella stessa della pagina conclusiva di Aracoeli di Elsa Morante: la pietà verso la creatura.

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