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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2011 alle ore 19:55.

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Dopo aver attraversato la storia ancora viva dell'Italia di questi anni con la spietatezza, la precisione ma anche la tensione narrativa di Patria, Enrico Deaglio ha deciso di fare un passo in là, e provare a ri-raccontare questo paese attraverso un romanzo. Lo fa in modo molto interessante e sincero, perché si concentra sulla propria generazione, elaborando in maniera forse involontaria una versione settentrionale e colta di C'eravamo tanto amati: un triangolo di amicizia e amore meno conflittuale, pieno di pudore, e una coscienza culturale e politica più pronunciata. Dove gli interessi in gioco sopravanzano i sentimenti e i rancori. E dei tre personaggi, chi può scrivere è colui che ha più osservato, ha quasi niente agito, ha partecipato seguendo il corteo degli eventi non standoci in mezzo, ma affiancando con timidezza.

Al centro della vicenda c'è una donna, ma stavolta il movente non è l'amore - o meglio, non soltanto - di due amici per lei; al centro del racconto e nel cuore del personaggio di Zita c'è l'azione. L'azione politica, l'impulso ad agire - anche in maniera violenta, com'è successo per alcuni anni in questo paese. Quindi i due uomini si prendono carico, di conseguenza, della riflessività e allo stesso tempo della morbidezza, l'esitazione ad agire. Mentre Zita mette in moto un processo reale che mira a «cambiare e cose» – processo che la porterà in giro per il mondo e persino davanti all'ayatollah Khomeini – gli altri due resteranno immobili a osservare il precipitare degli eventi, e la loro unica capacità di azione, e di complicità, cadrà nei momenti in cui c'è bisogno di proteggere o di salvare la loro amica.

Già questo basterebbe a essere metafora esemplare di due modi di rappresentare i termini del cambiamento di una generazione. Ma un romanzo è un romanzo prima di tutto, e quindi contano i personaggi e il racconto. La storia comincia con Zita che torna da Teheran tre anni dopo essere scappata via. Torna nella sua vecchia casa di Torino. E dopo un po', anche se era sicura di non aver detto a nessuno di essere in città, sotto la porta ricompare la sua patente di guida, il cui smarrimento in circostanze piuttosto delicate, aveva causato la fuga.

È da quando la sua giovinezza è fiorita che intorno a sé ha due angeli custodi: Francesco e Carlo. Sono loro che l'hanno aiutata a scappare per evitare l'arresto. Ed è Carlo che racconta questa storia. Francesco probabilmente è stato un amore chissà quanto fuggevole, ma senz'altro segreto, degli anni della giovinezza. Carlo, innamorato di Zita da sempre, invece scambiò con lei soltanto un bacio, ma di quelli che si è sicuri che l'altra ha dimenticato. Zita è l'Italia, probabilmente.

È l'Italia come sarebbe potuta diventare e com'è nella realtà, anche nella sua parte migliore. Adesso, racconta Carlo, Zita è una donna anziana, ma ancora bella ed elegante, tanto da portare su di sé impressi, anzi indelebili, i segni di tutte le cose che ha fatto, di tutta la giovinezza che ha consumato. E quella patente che passa sotto la sua porta, quel passato che torna con rapidità, è davvero la resa dei conti di una generazione intera di fronte alla vecchiaia.

E allora la conclusione, a dire il vero, è che se il romanzo ci fa inseguire Zita con stupore e passione – un personaggio amabile e detestabile, ma difficile da dimenticare; alla fine è piuttosto al narratore che affideremmo le sorti future di questa Italia che abbiamo attraversato: perché saprebbe criticarla con ferocia, ma sembrerebbe avere il tono malinconico e la pacatezza necessaria per comprendere sia gli errori del passato, sia la faticosa ma inevitabile complessità del tempo presente.

Enrico Deaglio, Zita, Il Saggiatore, Milano, pagg. 216, € 16,00.

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