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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2011 alle ore 16:38.

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Con mezzo di milioni di abitanti e il più alto reddito pro capite al mondo dopo il Qatar, il Lussemburgo è più noto per i banchieri e per i campioni di ciclismo - almeno ai lettori che seguono il Tour de France - che per i suoi intellettuali e scienziati, data la presenza di una sola e piccola università e l'assenza di centri di ricerca.

Da qui la sorpresa nell'apprendere che quest'anno il premio Nobel per la medicina è condiviso per metà dall'americano Bruce Beutler e, una prima assoluta, dal lussemburghese Jules Hoffmann per le scoperte riguardanti l'attivazione dell'immunità innata. L'altra metà va al canadese Ralph Steinman per la scoperta della cellula dendritica e il suo ruolo nell'immunità "adattativa", acquisita dall'esperienza in incontri con molecole caratteristiche di qualche patogeno.Eh no, momento! Il "francese Jules Hoffmann" ha corretto Le Monde nel dare la notizia, e ha aggiunto, repetita juvant, «Jules Hoffmann è un ricercatore francese, nato in Lussemburgo, che opera nell'Istituto di biologia molecolare e cellulare» del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs, l'equivalente del Cnr) del quale ha ricevuto pure la medaglia d'oro pochi mesi fa. Inoltre è stato presidente dell'Académie des sciences, una carica che i savants locali non attribuiscono volentieri a uno straniero.

Infatti dopo il dottorato all'università di Strasburgo e la specializzazione in Germania, Jules Hoffmann ha fatto carriera nel Cnrs e ha preso la cittadinanza francese, il che gli avrà risparmiato parecchie procedure burocratiche. Speriamo che i francesi non abbiano una crisi di sciovinismo e condividano volentieri l'onore con i sudditi cosmopoliti del Granducato, anche perché il lavoro di Hoffmann si inserisce in una tradizione iniziata negli Stati Uniti. Coincidenza o allusione storica, viene onorato innanzitutto per una scoperta fatta su un gene del moscerino della frutta, proprio la Drosophila melanogaster che esattamente un secolo fa assurgeva a organismo modello della genetica tutta, con la pubblicazione su Science della scoperta dei primi geni e della loro localizzazione sui cromosomi da parte di Thomas Hunt Morgan.

Seconda coincidenza o preveggenza, il mensile Nature Medicine ha anticipato oggi una ricerca notevole, che allarga ai neuroni il concetto di "memoria cellulare" di cui i tre premiati sono stati i pionieri per quanto riguarda il sistema immunitario. Fabrizio Benedetti, dell'Istituto Nazionale di Neuroscienze, Martina Amanzio e Rosalba Rosato, del Dipartimento di Psicologia di Torino, e Catherine Blanchard della stazione di ricerche di Plateau Rosà, scrivono che, dopo la somministrazione di antidolorifici e di analgesici, quella di un placebo è altrettanto efficace perché, insieme alle endorfine, fa produrre al cervello degli endocannabinoidi, due sostanze che alleviano il dolore e che vengono "riconosciute" e ben accolte dai neuroni. Questa mattina presto, prima ancora di sapere del premio Nobel, Fabrizio Benedetti spiegava questa memoria farmacologica paragonandola a quella acquisita con i vaccini, alla «memoria immunitaria che si riattiva nel corso della vita quando veniamo di nuovo a contatto con un virus». Colpisce che anche i neuroni abbiano dendriti, come quelli identificati da Ralph Steinman. Attraverso quelle appendici ramificate, percepiscono i segnali molecolari scambiati da altre cellule nel loro vasto territorio e se li ricordano. Quasi la memoria fosse una proprietà della loro conformazione, di qualunque tipo siano e ovunque si trovino, sulla pelle e nel naso, negli intestini e nel cervello.

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