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Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2011 alle ore 08:16.

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«Nel pomeriggio ci siamo messi in cammino per andare a scavare su una collina che aveva già fruttato un braccio o una gamba o una colonna di marmo sbozzato. Non ci voleva davvero un occhio da archeologo per vedere che la collina prometteva bene, poiché era sagomata e dotata di un contrafforte, e l'occhio di chi ricordasse Micene avrebbe potuto suddividerla in sale e palazzi». Piccone in pugno, la donna che va a caccia di membra scolpite non è in effetti un archeologo, ma un'aspirante scrittrice di 24 anni, Virginia Stephen, destinata a diventare famosa con il cognome dell'uomo che avrebbe sposato sei anni più tardi: Leonard Woolf. «Chi ha visto il luogo non può certo negare che vi siano dei tesori; ma il greco che brandiva la vanga ha professato un interesse molto cinico per le nostre attività. Per quale ragione, diceva tra sé, dissotterrare pietre quando potresti estrarre patate?». Diari di viaggio, i suoi, mai rivisti, che oggi sono anche un itinerario a ritroso nel tempo. Nella Grecia, Italia e Turchia di cent'anni fa. Appunti buttati giù rapidamente in un taccuino trascritto in A passionate apprentice The early journals 1897-1909 e oggi per la prima volta tradotti in italiano.
È la fine di settembre del 1906, Virginia, con la sorella Vanessa e l'amica Violet Dickinson, ha attraversato in treno la Francia e l'Italia, fino a Brindisi, dove ha preso un traghetto per raggiungere i fratelli Adrian e Thoby in Grecia, lì giunti a dorso di mulo dal Montenegro. «Le belle statue hanno uno sguardo mai visto sul volto dei vivi, o forse solo di rado, come di serena immutabilità; ecco un modello durevole come la terra, o meglio che sopravvivrà a tutte le cose tangibili, perché una tale bellezza ha un'essenza immortale. E questa espressione su un volto che per il resto è giovane e morbido ti fa respirare un'aria più leggera. È come il bacio dell'alba» annota Virginia, che se ne va a zonzo per il Partenone, al pari di un'odierna turista, munita di guida di viaggio, la Baedecker. Nelle strade però corrono le carrozze e sono le lanterne a illuminare i villaggi dove giunge la notte.
Conosceva il greco classico, e stava leggendo Sofocle, Platone, Aristofane e Omero. La grecia dei suoi giorni la delude: «Ancora una volta, gli antichi greci si sono presi il meglio, mentre noi eravamo viandanti tardivi: i santuari sono crollati e gli oracoli sono muti». Trova «qualcosa di bello», un «ordine naturale» in un accampamento di pastori valacchi: «sono nomadi che badano alle pecore, e vagano sui monti per tutta l'estate, e rizzano le loro capanne durante l'inverno». Usano «lo stesso aratro che utilizzava ai tempi di Omero, e anche se le genti sono cambiate, la loro vita non può essere molto diversa; la terra cambia ben poco». Poi si imbarca per la Turchia: «Alle sei ero sul ponte e all'improvviso ci siamo trovati di fronte tutta Costantinopoli; ecco Santa Sofia, come un triplice globo di bolle congelate, che prendeva il largo per venirci incontro. È come plasmata in un materiale pregiato, sottile come vetro, soffiato in curve piene, se non fosse che è anche massiccia come una piramide. Forse è questa la sua bellezza». «Poche esperienze sono più esaltanti del primo tuffo in una città nuova», annota prima della delusione della discesa al vecchio quartiere di Stambul: «Un panorama non assicura in alcun modo la bellezza dei dettagli; e le strade erano insignificanti». Dopo tre giorni nella capitale scrive che la cosa più meravigliosa «è la vista dei tetti della città dalle alture di Pera. Al mattino, infatti, la nebbia giace come un velo che avvolge i tesori di tutte le case e di tutte le moschee; poi, quando sorge il sole, si colgono indizi della traboccante moltitudine che custodisce; (...) E lentamente la nebbia si ritira, e tutta la ricchezza delle case scintillanti e delle tonde moschee si estende chiara sulla terra spessa, e in mezzo scorrono le grandi acque, brillanti come la luce del giorno». Il quarto giorno il programma è perdersi per i bassifondi, «imbattersi in luoghi che non sanno nemmeno di esistere» e per la prima volta Costantinopoli diventa una città in carne ed ossa.
In Italia Virginia Woolf trascorre due vacanze nel 1908. Era già stata a Venezia e Firenze nel 1904, poco dopo la morte del padre. «Osservando Firenze l'altra sera sono rimasta molto colpita dalla finezza del colore» annota nelle poche pagine dedicate al nostro paese. Qui riflette sulla sua poetica: «Io conseguo un tipo diverso di bellezza, raggiungo una simmetria attraverso infinite discordanze, mostrando tutte le tracce del passaggio della mente per il mondo; e alla fine ottengo una sorta di insieme fatto di frammenti vibranti; questo mi pare il processo naturale, il volo della mente». Di Perugia ci lascia un panorama in lontananza: «Il terreno è insolitamente brullo e pietroso, cosparso di granai fatti di vecchi mattoni rosa dall'aria fragile, e magari c'è un'arcata sotto cui siedono le donne a mondare il granturco. Qui l'accogliente cortile delle nostre fattorie non esiste. Ma il posto è bello; gli alberelli ricurvi, ora verdi, ora neri contro il cielo, si ramificano in ogni direzione; le cime sono incantevoli in lontananza, sembrano un grande accampamento di tende di tutte le dimensioni; davanti a noi si trova Perugia sulla sua collina, con la silhouette delle alte torri e degli edifici squadrati addossati gli uni agli altri; non c'è morbidezza, niente di indistinto, ma comincio a capire che questa terra ha un suo carattere, con gli alberelli raggrinziti e i contorni marcati, che presto renderà insulso qualunque altro paesaggio».

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