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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2011 alle ore 19:45.

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illustrazione di Jacques Guilletillustrazione di Jacques Guillet

Abbiamo tuttavia ancora dimensioni tali da permetterci di rifiutare la soluzione adottata da Paesi come l'Olanda o quelli scandinavi, dove nell'istruzione superiore l'inglese è ormai la norma. Possiamo cioè continuare a pubblicare in italiano. Ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà e quindi dobbiamo al contempo stimolare e premiare la presenza della nostra migliore produzione, anche in campo umanistico, nel sopramondo costruitosi intorno all'inglese, come del resto fanno i tedeschi e stanno cominciando a fare i francesi.

Gli strumenti e le idee per farlo non mancano e se ne discuterà. È però necessario porsi, prima di tutto, un problema culturale più vasto. Per secoli il mondo occidentale e il nostro Paese hanno operato con una pluralità di lingue che andavano dal latino dei dotti a un volgare illustre che nei ceti elevati ha convissuto col francese, ai grandi 'dialetti' di cultura. Gli Stati nazionali hanno, per ragioni comprensibili, distrutto questa realtà, sostituendo le monoculture linguistiche che hanno aiutato i singoli Paesi a crescere, ma li hanno anche impoveriti e isolati, favorendone la tendenza, in situazioni di crisi, all'auto-marginalizzazione. Forse la prospettiva in cui occorre mettersi, e non solo nel campo degli studi, è quella del ritorno a un nuovo plurilinguismo, capace di mantener vivo, e arricchire, il suo nucleo italiano.
Università di Napoli Federico II,
Coordinatore gruppo valutatori Anvur Area 11

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