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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2011 alle ore 19:46.

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Germano CelantGermano Celant

Quello dell'Arte Povera è stato il solo gruppo artistico del secondo Novecento italiano che abbia saputo guadagnarsi una visibilità internazionale duratura. Il novero di artisti che si è annodato attorno al 1967 tra Torino, Genova, Roma e Milano non solo ha saputo reggere il tempo, ma ha risalito la china anche quando il clima in cui era nato si è sfrangiato. Dopo gli esordi italiani, infatti, e dopo le prime divisioni emerse già nella mostra-evento di Amalfi del settembre 1968, ha saputo ripresentarsi sulla scena internazionale poco a poco ma inesorabilmente: nella sezione Ambiente Arte alla Biennale di Venezia del 1976, nella collettiva al Ps1 di New York del 1986, nella discussa ricognizione alla Tate di Londra nel 2001, poi con eventi tra cui ricordiamo la personale di Mario Merz al Guggenheim di New York nel 1989, l'ultima mostra allestita in vita da Alighiero Boetti a Grenoble nel 1993, la recente retrospettiva filologica di Michelangelo Pistoletto al Philadelphia Museum of Art (2010) e il ruolo di Giuseppe Penone, primo artista ad avere installato un'opera per la rassegna quinquennale dOCUMENTA(13) che aprirà a Kassel a giugno 2012.

Qual è la formula di tanta resistenza? Lo chiediamo a Germano Celant, il critico che ha compattato il gruppo. Nelle prime riunioni serali del gruppo, in soggiorni torinesi fumosi o al mare alle Cinque Terre, prendeva appunti mentre gli artisti discutevano, raccoglieva pezzi di carta e inviti, riordinava il presente: e infatti la fondazione che porta il suo nome a Milano è un grande archivio. Oggi, ci dice, «la definizione migliore per me è quella di 'compagno di strada e di viaggio' e mi piace pensare che l'avventura continua».

Anzitutto c'è da chiedersi quale importanza abbia avuto la reazione al mondo del consumismo, quella che altrove si era espressa in Pop Art o comunque in estetiche che accettavano la nascita di una civiltà urbana centrata sul kitsch, sul luccichio dei materiali, sulla dimenticanza rispetto a un passato rurale. Per alcuni artisti, come Jannis Kounellis, Mario Merz, Pino Pascali, questi temi apparivano rilevanti; per altri, come Alighiero Boetti e Giulio Paolini, stavano in secondo piano: il primo era volto a una precoce coscienza del ruolo dell'Est, il secondo, a cui andrebbe riconosciuto il ruolo di precursore mondiale del concettuale, era staccato da ogni tematica sociale. Ma è evidente come l'Arte Povera nel suo insieme abbia percorso strade opposte a quelle del gadget e dello spreco elevato a valore. Tutte le opere, comprese le torsioni di Giovanni Anselmo, le alchimie di Gilberto Zorio, l'acqua gelata di Pier Paolo Calzolari, riportano il discorso dal consumo di denaro a quello di energia primaria.

«L'Arte Povera», risponde Celant, «ha messo in crisi il packaging dell'oggetto: l'assunzione che un'opera artistica debba essere un'unità chiusa e statica, senza energia vitale e performativa all'interno di se stessa. In tal senso con i suoi frammenti effimeri e indefiniti, costituiti da vetri rotti, carbone, acqua, zolfo, animali, pietre, fili di rame, spezzoni di gessi, e con la sua attitudine a elaborare configurazioni di materie in relazione al contesto e alla situazione è risultato un 'format' contro la forma congelata e cadaverica dell'arte tradizionale, fino alla Pop Art. Più che prodotti ha realizzato organismi che si evolvono, mutano e ruotano sulla relazione aperta e non sul fissaggio di entità fisiche. In aggiunta ha integrato nel suo fare le circostanze ambientali e architettoniche, quanto il contesto socio culturale. Non si è offerta come un'esperienza dopo che il fatto artistico era compiuto e concluso, ma ha stimolato l'entrata in relazione con un opera che muta e vive, perché cresce o si muove, si scioglie e morde come il ghiaccio o un pappagallo».

Nello svolgersi di queste tematiche, il gruppo italiano è riuscito a mutare la geografia artistica del Paese: ha fatto nascere gallerie come Chistian Stein e Gian Enzo Sperone, ha coinvolto galleristi legati a tendenze precedenti come Luciano Pistoi di Notizie, ha infiammato Plinio De Martiis de La Tartaruga a Roma, ha concorso alla nascita di musei come quello di Rivoli e alla vitalità di Torino. Anche le dimensioni delle sedi espositive sono dovute cambiare, con l'apertura di spazi come il garage chiamato Attico da Fabio Sargentini, scovato a Roma da Pino Pascali che, pietra miliare del movimento e grande suggeritore, non riuscì a esporvi perché si schiantò prima in moto. Ci entrarono, al posto delle sue opere, i cavalli vivi di Jannis Kounellis.

Spiega ancora Germano Celant: «Considerato l'uso di fuoco e tubi al neon, macigni e statue rotte, gomme e piombo, nonché il ricorso alla grande scala, l'Arte Povera è risultata incompatibile e inconciliabile con le condizioni casalinghe degli appartamenti dei collezionisti e delle gallerie tradizionali, veri negozi di oggetti d'arte che al massimo della sperimentazione arrivavano alle tele di Fontana e Burri. Tali condizioni operative ed espositive hanno messo in crisi gli spazi tradizionali sollecitando i galleristi a occupare depositi industriali e garage come Gian Enzo Sperone a Torino e l'Attico a Roma. Inoltre l'incollocabilità di tali lavori in luoghi privati, a parte la situazione creata a Varese da Panza di Biumo per l'arte americana, ha spinto il mercato a trovare una possibile sopravvivenza in Europa, specialmente in Germania e Olanda, e subito dopo in America, dove i musei si sono dimostrati immediatamente ricettivi a simile linguaggio che si stava diffondendo anche attraverso protagonisti come Beuys e Dibbets, Nauman e Kosuth, Long e Buren. Nasce da questa esigenza ambientale e linguistica la formazione di una rete europea e poi mondiale di cui fanno parte gli artisti, i galleristi e in seguito i musei italiani. È interessante notare che questa rete internazionale si crea fuori delle grandi città di potere mercantile estremamente conservatore, come Milano, tanto che lo scacchiere arriva a comprendere città decentrate da Torino a Bologna, da Napoli a Bari, mentre i musei più avanzati si creano a Rivoli e a Trento».

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