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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2011 alle ore 08:14.

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Questa storia, che l'autore definisce efficacemente «di vento e di fango, di sangue e di vendetta» ha una base storica certa: la strage nella scuola Numero 1 di Beslan (nell'Ossezia del Nord) avvenuta fra il 1° e il 3 settembre 2004, quando un gruppo di 32 ribelli, che si definivano fondamentalisti islamici e separatisti ceceni, occupò l'edificio scolastico sequestrando circa 1.200 persone fra adulti e bambini, iniziando ad ammazzarne alcuni. Tre giorni dopo, quando le forze speciali russe fecero irruzione, avvenne un massacro che causò la morte di centinaia di persone, fra le quali 186 bambini, e oltre 700 feriti.
L'unico sopravvissuto tra i terroristi, il ventriquattenne ceceno Nur-Pashi Kulayev, fu processato e condannato all'ergastolo il 24 maggio del 2006.
Il resto della vicenda è nebbia e buio, come è avvenuto per i simili e inquietanti episodi della recente storia russa, come la strage al Teatro Dubrovka di Mosca (26 ottobre 2002) o il bombardamento al convoglio ferroviario Mosca-Vladikavkaz (15 maggio 2004). Le dinamiche e reali responsabilità di questi fatti non sono mai state chiarite e il governo russo ha chiuso le inchieste assai rapidamente.
Il romanzo di Andrea Tarabbia, che si era già fatto apprezzare per La calligrafia come arte della guerra (Transeuropa 2010), si prende il compito di raccontare questa vicenda e lo fa con uno stile di scrittura bellissimo, riuscendo a controllare e rendere credibile un materiale difficile.
Il suo protagonista è proprio l'unico ceceno sopravvissuto (qui si chiama Marat Bazarev) che si immagina scrivere, nel carcere russo (mentre, dalle altre celle, i detenuti lo minacciano), una lunga confessione per raccontare l'inizio, la strage e la fine, dal punto di vista di uomo convinto che il Male si possa quantificare. La sua tesi è infatti quella di esser stato trascinato in una spirale di violenza, assieme al fraterno amico Shamil, dalla violenza che è stata loro inflitta dai russi: «Abbiamo fatto il male perché lo abbiamo subito». Stringendo il corpo agonizzante di Shamil, nell'opaco corridoio della scuola, mentre il sangue delle vittime scivola sul linoleum, il fumo e il rumore degli spari pervadono tutto, e i piccoli sequestrati fuggono urlando, Marat ricapitola la loro disgrazia, ricordando l'incanto della scena iniziale del libro: «Noi avevamo altre idee, altri progetti, noi non eravamo quello che siamo ora ... Noi volevamo vivere in pace .... Noi scappavamo dalla guerra e dalla morte ... Noi non volevamo uccidere. Volevamo che gli altri smettessero di fare quello che stavano facendo, tutto qui. ... Te lo ricordi come tutto questo è cominciato di pomeriggio? Comincia con io e te al l'anfiteatro – il nostro anfiteatro – lontano da tutto e da tutti. Comincia così, io e te a fumare e a sparare agli uccelli».
La scoperta casuale, nel boschetto lì vicino, di un mucchio di cadaveri appena massacrati dai militari russi; la corsa al villaggio, con un atroce presentimento; le scene di distruzione e inaudita violenza (persino il gatto Van'ka è stato crocifisso sulla porta di casa), hanno cambiato il senso della loro vita, trasformandoli rapidamente in feroci pedine di una guerra insensata manovrata sopra le loro teste.
Questi terroristi appaiono come burattini che comprendono solo dopo (come accade a Marat, grazie alla scrittura) cosa sia successo e cosa abbiano fatto. Dentro la scuola, alcuni di loro, soprattutto donne, che hanno le cinture esplosive, diventano addirittura pupazzi e vittime del fanatico capo Ruslan. E ancora più inerti sono i sequestrati, soprattutto bambini, passati in un attimo da una mattina di festa, con fiori, canti e divise eleganti, a un Inferno insensato, dove la morte e il dolore sembrano uno sghimbescio gioco di dadi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Andrea Tarabbia, Il demone
di Beslan, Mondadori, Milano,
pagg. 354, € 18,50

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