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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2011 alle ore 08:15.
Interrogarsi sul significato ultimo dell'esistere non coinvolge, certo, lo scettico sardonico e sarcastico che ambisce solo a ridicolizzare asserti religiosi. Tra l'altro, uno che di ateismo s'intendeva, come il filosofo Nietzsche non esitava a scrivere nel Crepuscolo degli dei (1888) che «solo se un uomo ha una fede robusta, può indulgere al lusso dello scetticismo». Neppure il razionalista, avvolto nel manto glorioso della sua autosufficienza conoscitiva, vuole correre il rischio di inoltrarsi sui sentieri d'altura della sapienza mistica, secondo una grammatica nuova che partecipa del linguaggio dell'amore, che è ben diverso dalla spada di ghiaccio della pur importante ragione pura. Né è interessato a questo dialogo l'ateo confessante che, sulla scia dello zelo ardente del marchese de Sade della Nouvelle Justine (1797), presenta il suo petto solo al duello: «Quando l'ateismo vorrà dei martiri, lo dica: il mio sangue è pronto!».
L'incontro tra credenti e non credenti avviene quando si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della superficialità e dell'indifferenza, che seppellisce l'anelito profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragioni profonde della speranza del credente e dell'attesa dell'agnostico. Ecco perché si è voluto pensare da parte del Pontificio Consiglio della Cultura a un «Cortile dei Gentili», sulla scia di una sollecitazione di Benedetto XVI durante un suo discorso rivolto alla Curia romana nel dicembre 2009. Lasciamo da parte la denominazione storica che ha solo una funzione simbolica, evocando l'atrio che nel tempio di Gerusalemme era riservato ai «gentili», i non ebrei in visita alla città santa e al suo santuario. Fermiamoci, invece, sul suo aspetto tematico, così come lo fa balenare Dagerman.
Uno degli intellettuali ebrei più aperti del I secolo d.C., Filone di Alessandria, artefice di un dialogo tra ebraismo ed ellenismo – quindi secondo i canoni di allora, tra fedeli jahvisti e pagani idolatrici –, definiva il sapiente con l'aggettivo methórios, ossia colui che sta sulla frontiera. Egli ha i piedi piantati nella sua regione, ma il suo sguardo si protende oltre il confine e il suo orecchio ascolta le ragioni dell'altro.
Per attuare questo incontro ci si deve armare non di spade dialettiche, come nel duello tra il gesuita e il giansenista del film La via lattea (1968) di Buñuel, ma di coerenza e rispetto: coerenza con la propria visione dell'essere e dell'esistere, senza slabbramenti sincretistici o sconfinamenti fondamentalistici o approssimazioni propagandistiche; rispetto per la visione altrui alla quale si riservano attenzione e verifica. Si è, invece, incapaci di ritrovarsi su quel confine tra i due cortili simbolici del tempio di Sion, l'atrio dei gentili e quello degli israeliti, quando ci si arrocca solo in difesa dei propri idoli. Nell'Adolescente (1875) Dostoevskij, sia pure con la passione del credente, li identificava con chiarezza. Da un lato, infatti, affermava che «l'uomo non può esistere senza inchinarsi...
Si inchinerà, allora, a un idolo di legno o d'oro, o del pensiero... o di dèi senza Dio». D'altro lato, però, riconosceva che vi sono «alcuni che sono davvero senza Dio, solamente fanno più paura degli altri, perché vengono col nome di Dio sulle labbra». Ecco la tipologia comune a coloro che non si fermeranno a dialogare su quella frontiera: chi è convinto di aver già in sé tutte le risposte e di doverle solo imporre. Questo, però, non significa che ci si presenta soltanto come mendicanti, privi di qualsiasi verità o concezione della vita. Ponendomi per congruenza sul territorio del credere a cui appartengo, vorrei solo evocare la ricchezza che questa regione rivela nei suoi vari panorami ideali. Pensiamo al raffinato statuto epistemologico della teologia come disciplina dotata di una sua coerenza, alla visione antropologica cristiana elaborata nei secoli, all'investigazione sui temi ultimi della vita, della morte e dell'oltrevita, della trascendenza e della storia, della morale e della verità, del male e del dolore, della persona, dell'amore e della libertà; pensiamo anche al contributo decisivo offerto dalla fede alle arti, alla cultura e allo stesso ethos dell'Occidente.
Questo enorme bagaglio di sapere e di storia, di fede e di vita, di speranza e di esperienza, di bellezza e di cultura è posto sul tavolo di fronte al «gentile» che potrà, a sua volta, imbandire la mensa della sua ricerca e dei suoi risultati per un confronto.
Da un simile incontro non si esce mai indenni, ma reciprocamente arricchiti e stimolati. Sarà un po' paradossale, ma potrebbe essere vero quello che Gesualdo Bufalino scriveva nel suo Malpensante (1987): «Solo negli atei sopravvive oggigiorno la passione per il divino».
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il cortile dei gentili
Sarà in libreria dal 19 ottobre Il Cortile dei gentili (Donzelli, Roma, pagg. 150, € 16,50) che, con la prefazione di Ivano Dionigi, raccoglie i contributi di Gianfranco Ravasi (di cui pubblichiamo in questa pagina uno stralcio), Julia Kristeva, Sergio Givone, Massimo Cacciari, Augusto Barbera, Vincenzo Balzani, Giuliano Amato. Il «Cortile dei gentili» approda domani pomeriggio (alle 17) a Firenze al Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio con un incontro dal titolo «Umanesimo e bellezza ieri e oggi». Creato dal cardinale Gianfranco Ravasi in risposta all'invito di Benedetto XVII, il Cortile dei gentili ha l'intento di stimolare e raccogliere riflessioni di credenti e atei.