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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2011 alle ore 08:14.

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Il gran numero di risposte all'allarme sulla crisi dello stile lanciato su queste pagine (ripreso da giornali e siti) è il segno – sicuramente positivo – che la questione interessa a molti. Discutere oggi di stile, proprio perché se ne parla in genere così poco (a cominciare dalle recensioni delle novità letterarie), vuol dire soprattutto dare inizio a un'indispensabile «verifica del sentire» al principio del secondo decennio del nuovo secolo. Così, non sorprendentemente, sono emerse delle linee di continuità tra i vari interventi. Elisabetta Rasy, Massimo Onofri e Filippo La Porta, per esempio, hanno giustamente difeso una nozione di stile diversa da quella con cui, nel Novecento, si era legittimata qualsiasi infrazione linguistica facendo leva sull'equazione affrettata secondo cui lo stile sarebbe unicamente scarto, rifiuto della tradizione, contestazione della norma. Mentre Onofri e Giuseppe Antonelli hanno sottolineato in maniera opportuna la differenza tra lo "scrivere bene" e lo "scrivere bello", intendendo con quest'ultimo i discutibili tentativi liricizzanti di narratori dalla prosa tanto più goffa quanto più carica di bellurie stilistiche (Niffoi o la Mazzantini). Ma forse il fulcro del problema originale si è anche un po' smarrito. Come ha ben visto Antonelli, la questione posta non era quella delle scarse qualità stilistiche dei narratori italiani dell'ultima generazione: una tesi che sarebbe, peraltro, suscettibile di una facile smentita (farò almeno i nomi di romanzieri come Andrea Bajani, Nicola Lagioia e Paolo Zanotti). Né è quella della tenuta complessiva della lingua italiana.
Il problema che abbiamo di fronte riguarda infatti assai più la ricezione che la creazione delle opere letterarie. Se ci siamo affrancati dal purismo che ha spinto per decenni a rimproverare persino a un grande stilista come Svevo di scrivere un brutto italiano, la situazione contemporanea appare sempre più caratterizzata da un atteggiamento liquidatorio verso la tecnica, che riduce le opere a gesti o a performance di cui soltanto contano le ricadute nel sistema – spesso autoreferenziale – della comunicazione. Venuta meno la contrapposizione a priori tra pasdaran dello "stile minimo" e difensori dell'infrazione a tutti i costi, il vero discrimine sembra essersi spostato altrove. Non sorprende che in quanti sono intervenuti nella duplice veste di narratori e saggisti si avverta un pathos speciale. La cesura, in altre parole, sembra rispecchiare oggi innanzitutto la prospettiva da cui si guarda alla letteratura contemporanea. Per chi – Rasy, Policastro, Molesini, il sottoscritto – la scrittura critica si accompagna alla scrittura creativa, la difesa dello stile è sic et simpliciter una questione di sopravvivenza. Cosa che invece non avviene automaticamente nel caso dei critici puri. All'estremo opposto si colloca soprattutto Daniele Giglioli. La sua analisi della crisi del prestigio della lingua scritta è implacabile e persino più radicale di quella proposta nell'articolo che ha scatenato il dibattito. Il dominio del visivo, l'estetizzazione dell'esperienza quotidiana, il tracollo del sistema educativo... Eppure l'impressione è che tutto questo non lo riguardi: come se la difesa della qualità letteraria gli fosse in fondo indifferente. E non è un caso, allora, che Giglioli abbia pubblicato da poco un libro acuto ma devastante, in cui la letteratura contemporanea è ridotta a una sequenza di sintomi e in cui vengono presi in considerazione quasi esclusivamente narratori che lui stesso reputa trascurabili dal punto di vista letterario (Senza trauma). Ma allora sorge spontaneo l'interrogativo: se interessano solo i sintomi, perché non dedicarsi a X-Factor, ai video amatoriali postati su You-Tube o alla pornografia di massa? Sociologismo per sociologismo, tutti questi fenomeni sono enormemente più "sintomatici" di qualsiasi brutto romanzo, se non altro perché riguardano un pubblico più ampio.
Per tutto il XX secolo scrittori e critici hanno fatto gioco di squadra: non nel senso dei mutui favori reciproci, ma perché entrambi sapevano che soltanto assieme sarebbero potuti andare avanti. Per essere tale, un grande saggista aveva bisogno di grandi autori da analizzare (se ancora oggi leggiamo Giacomo Debenedetti è anche perché ci interessano Svevo, Pirandello, Tozzi o Saba). Dagli anni Ottanta si è invece diffusa sempre più l'illusione che un critico si possa affermare senza e persino contro gli scrittori del suo tempo: persino, cioè, se i pochi libri che davvero contano finissero per non ricevere l'attenzione che pure meritano. Detto con una metafora, il critico sintomatico va a pescare con le bombe, torna a casa con le sporte piene di pesce e si cucina un bel fritto misto, senza che il semplice fatto che in quello stesso pezzo di mare nessuno potrà più pescare per parecchi anni turbi più di tanto la sua digestione.
È una strada molto pericolosa. E non solo perché, una volta distrutta allegramente la fauna ittica, a morire di fame potrebbe essere innanzitutto la critica.
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