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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2011 alle ore 16:55.

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Chiudo facendo un appello a quanti, della generazione mia e di Giunta, insegnano nell'Università le materie umanistiche. La nostra responsabilità è tanto maggiore in quanto siamo pochi, noi stessi dei sopravvissuti alla falce del draconiano turnover, della fuga dei cervelli all'estero e del plurilustre precariato. Prendiamo posizione, abbiamo il coraggio di chiudere con le ubriacature del passato, di dire a gran voce che è ora di finirla di inseguire i gusti degli studenti, di proporre corsi di letteratura italiana che inanellano uno dietro l'altro la scrittrice premio Strega, lo scrittore premio Campiello, e via così col cursus awardorum, sperando di farci tirare la volata dal battage pubblicitario dei mezzi di comunicazione. Che non significa, attenzione, proporre corsi iperspecialistici su argomenti di minimo respiro, bensì avere il coraggio di insegnare agli studenti quello che, in coscienza, pensiamo possa servire, non piacere, loro.
Perché se una cultura democratica e realmente progressiva può ancora crescere in questo Paese, passa proprio da qui, dal riconoscimento che molto si è sbagliato e da un cambio di rotta che ci porti a ripensare il ruolo dell'intellettuale ai tempi del web 2.0. La via è stretta, ma non abbiamo altra scelta che percorrerla, pena l'evaporazione definitiva del sapere umanistico, quand'anche le nostre aule si dovessero riempire perfino sugli strapuntini.

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