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Questo articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2011 alle ore 21:41.

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Ritratto di Curzio Malaparte (1898-1959) con Francis Roche presso l'aeroporto di Tempelhof in occasione di una visita a Berlino durante il Festival del Cinema, 1951-Ullstein Bild / Archivi AlinariRitratto di Curzio Malaparte (1898-1959) con Francis Roche presso l'aeroporto di Tempelhof in occasione di una visita a Berlino durante il Festival del Cinema, 1951-Ullstein Bild / Archivi Alinari

Ci sono scrittori che dividono il pubblico a metà: li ami o li odi, in ogni caso non ti lasciano indifferente. Curzio Malaparte - tra gli autori più controversi del Novecento italiano – appartiene nel bene e nel male a questa eletta schiera. E la «Tecnica del colpo di Stato» è senza dubbio l'opera che più di ogni altra contribuì a crearne il mito: Mussolini la apprezzò ma, per non inimicarsi Hitler, ne impedì la pubblicazione in Italia.

Uscirà in Francia nel 1931 per l'editore Grasset e per l'autore sarà l'inizio della fama internazionale ma anche di fermi di polizia, giorni di confino e peregrinazioni da esule in giro per l'Europa. Questo curioso saggio che, in una prosa potente e classicheggiante, teorizza l'arte del rovesciamento di qualsiasi tipo di regime dividendo il mondo in catilinari e ciceroniani, torna in libreria per Adelphi. Neanche a dirlo: per quanto si parli di un testo ormai consegnato alla storia dell'Italia letteraria, i recensori si dividono tra chi ne esalta le suggestioni e chi ironizza sulle innumerevoli contraddizioni dell'autore. «Malaparte è così, – spiega Giorgio Pinotti che si è occupato della nuova ristampa per Adelphi – puoi apprezzarlo o detestarlo. Ma ignorarlo ti è praticamente impossibile».

Pinotti, Malaparte era solito dichiarare che «Tecnica del colpo di Stato» gli aveva rovinato la vita. Parole sincere o piuttosto il vezzo di un artista profondamente innamorato della propria arte?

In Malaparte prevale sempre lo scrittore abile a fare leggenda di sé. E «Tecnica del colpo di Stato» rappresenta per eccellenza il libro cui affidò il disegno consapevole di diventare un autore di respiro internazionale. L'opera uscì per la prima volta nel '31, con l'autore che veniva da un periodo molto complicato: era stato direttore de «La Stampa» di Torino, poi aveva lasciato l'Italia, intratteneva rapporti complessi con il regime fascista. Pubblicare in quel momento un libro del genere e, per giunta, farlo in Francia significava un po' cercare lo shock a tutti i costi, il cortocircuito con il pensiero dominante dell'Italia di quel periodo.

Provocazione sistematica, insomma.

Un'arte in cui nessuno gli è stato e gli sarà pari. Neanche l'agente letterario più smaliziato. Si pensi che nel '29 trascorse un periodo piuttosto breve in Urss. Eppure pubblicherà i suoi reportage da quella terra dal giugno al dicembre di quell'anno, quasi a lasciar pensare di avervi trascorso tutto quel tempo. Di ritorno dalla Russia, poi, fa uscire una serie di opere che strizzano l'occhio a Mosca, come «L'intelligenza di Lenin» del 1930 o «Le bonhomme Lénine», uscito un anno più tardi a Parigi ancora per Grasset. In più stava lavorando al «Ballo al Cremlino», romanzo incompiuto che avrebbe dovuto narrare l'epopea dell'aristocrazia bolscevica, un'opera inedita che con Adelphi pubblicheremo l'anno prossimo. Tratta una materia narrativa incandescente per l'Italia dell'epoca. Ma lo fa deliberatamente, rivendicando la libertà assoluta dello scrittore.

«Tecnica del colpo di Stato» ha quasi l'ambizione di proporsi come manuale scientifico di teoria rivoluzionaria. Eppure è intriso di classicismo: tra le altre cose, fascisti e bolscevichi per Malaparte diventano catilinari di destra e di sinistra.

Si tratta di un'opera eminentemente letteraria. Malaparte è abilissimo a mescolare i generi, a incrociare letteratura e giornalismo. Lo fa nei suoi due capolavori narrativi, «Kaputt» e «La pelle», come nelle opere meno note al grande pubblico. Probabilmente si tratta di un altro modo per rivendicare la sua libertà di scrittore.

Nel libro abbondano i ritratti di personaggi storici: da Trotzkij a Lenin, passando per Mussolini e Hitler. Qual è quello a suo avviso meglio riuscito?

Il ritratto di una città: Pietrogrado che si prepara alla Rivoluzione. Malaparte ne fa una descrizione di grande efficacia e suggestione, attraverso pagine di alta letteratura. Poi ci sono i ritratti di Lenin e Hitler, quest'ultimo definito un «Giulio Cesare in costume tirolese». Facile riscontrare, dietro questo modo perturbante di guardare e raccontare le cose, la solita scaltrezza dello scrittore che frequenta la provocazione sistematica, in un misto di temerarietà e strategia.

Sempre a proposito di «Tecnica del colpo di Stato», Malaparte diceva: è un libro che può rivelarsi utile sia ai rivoluzionari che ai reazionari. Ma a quale di questi due particolarissimi pubblici si rivolge?

Malaparte era uno specialista quando si trattava di giocare su più fronti. Pensava a sé stesso come a un'icona, per questo al di sopra di tutto e tutti. È scrittore, quindi non ha padroni e deve rispondere solo alla sua libertà artistica.

Curioso che la ristampa del libro per Adelphi esca a ridosso delle rivolte di piazza dei Black Bloc che hanno messo a ferro e fuoco Roma. La circostanza in qualche modo sottolinea l'attualità dell'opera?

Se c'è una lezione che resta valida in «Tecnica del colpo di Stato», va ricercata nell'affermazione della grande fragilità delle democrazie. Tutte: non fanno eccezione quelle occidentali, da noi percepite come più mature e stabili. Per il resto, il libro va collocato nel contesto storico che l'ha prodotto, quello dell'Europa dei primi anni Trenta. Ogni tentativo di «arruolarlo» o prenderlo in prestito per raccontare ciò che accade oggi lascia il tempo che trova.

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