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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2011 alle ore 08:13.

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L'esterno del teatro Bolshoi a Mosca dopo i lavori di ristrutturazione. (Alinari)L'esterno del teatro Bolshoi a Mosca dopo i lavori di ristrutturazione. (Alinari)

Quando il Teatro Bolshoj spalancherà le sue porte, venerdì prossimo, non sarà per incoronare uno Zar: ma se Alessandro II rivedesse ora la meraviglia che lo celebrò nel 1856, forse non batterebbe ciglio. Guarderebbe la grande aquila bicipite che adorna la facciata, il simbolo dell'Impero, come se lassù una falce e un martello non ci fossero stati mai. Il tempio russo dell'opera e del balletto ritorna al presente in tutta la sua gloria dopo sei anni di restauri che lo hanno arricchito delle tecnologie più moderne restituendogli nello stesso tempo – con lavorazione artigianale – l'aspetto originario dell'epoca zarista. Bolshoj, il Grande.
Lo avevano chiuso per restauri nel 2005, ma solo dopo l'avvio dei lavori fu chiaro che il Bolshoj era seriamente in pericolo. Instabile per il 75%, dissero gli ingegneri. Avevano scoperto che le fondamenta erano da ricostituire, poiché – in legno di quercia – non erano più in grado di reggere l'edificio; i muri pieni di crepe, le colonne neoclassiche spaccate. Conseguenza, per cominciare, della fretta con cui l'architetto italo-russo Alberto Cavos aveva dovuto ricostruire il teatro distrutto da un incendio nel 1853, incalzato appunto dalla scadenza dell'incoronazione di Alessandro. Un luogo concepito da Cavos «come uno strumento musicale» subì poi, negli anni, riparazioni frettolose, sommate ai colpi del tempo.
Venne la Rivoluzione d'Ottobre, e fu Lenin a salvare il Bolshoj. Tuttavia, poiché i sovietici lo consideravano un simbolo di orgoglio nazionale ma al servizio del partito, ottima location per congressi e raduni bolscevichi, non trovarono sconveniente ricoprire i mosaici veneziani di più pratico parquet, riverniciare alla bell'e meglio le decorazioni, riempire di cemento il terreno, sistemare in platea sedili più spartani e contenuti, per guadagnare spazio.

Oggi, in ogni più piccolo dettaglio, il Bolshoj è corso indietro nel tempo. E questa è la parte conclusiva e più bella di una storia fatta anche di confusione, polemiche, ritardi, scandali, litigi, siluramenti. Come si usa in ogni grande appalto: con l'amministrazione del teatro e quella del Comune di Mosca impegnate a farsi la guerra, nel 2009 l'ufficio della Presidenza Medvedev ha assunto il controllo diretto del progetto, affidandone la responsabilità a una società di investimenti, Summa Capital. Ma sul budget finale – intorno agli 800 milioni di dollari, già 16 volte più del previsto – pesa il sospetto di spese gonfiate forse anche del doppio. È stata aperta un'inchiesta.
Alle prime note del concerto che il 28 ottobre riaprirà il Bolshoj, probabilmente tutto questo fango riuscirà a svanire nell'aria. L'obiettivo centrale dei restauratori è stato ricostituire la straordinaria acustica delle origini, perfezionata con le possibilità hi-tech del nostro secolo. La buca dell'orchestra è stata ampliata per accogliere 135 musicisti; là dove i sovietici avevano spalmato intonaco sono tornati i rilievi in papier-mâché di Cavos, che aiutano la riflessione del suono; perfino le nuove poltrone – ridotte da 2.200 a 1.740 – sono ora ricoperte di materiale studiato per favorire l'acustica.

Tanto che gli esperti assicurano: è finita l'epoca degli intenditori in cerca del posto che garantiva l'ascolto migliore, un segreto custodito gelosamente: ora la perfezione sarà alla portata di tutti. Trionfo dell'egualitarismo, se non fosse che la grande première di venerdì è riservata a pochi eletti, invitati dal Cremlino; mentre tutti gli altri la potranno seguire solo da fuori, nel gelo della piazza Teatralnaja corredata di maxi-schermi, oppure alla tv russa o in 600 cinema sparsi per l'Europa.
Ammireranno da lontano la fatica di 3.500 specialisti venuti da tutte le regioni della Russia, impegnati giorno e notte per rispettare una scadenza fissata con ordine presidenziale. Vedranno i pannelli in legno d'abete, le sete e il palcoscenico a sette piattaforme computerizzato, sdoppiato per l'opera e per il balletto mantenendo, in quest'ultimo caso, l'antica leggera inclinazione verso il pubblico con una copertura speciale che ammortizza l'impatto e aiuta i movimenti della danza. Vedranno gli stucchi illuminati da cinque chili d'oro, frutto di un'antica ricetta medievale russa, eccola: mescolare argilla ad albume tenuto per 40 giorni in un locale tiepido, applicare otto o più strati, strofinare il tutto con vodka e applicare infine uno strato d'oro più sottile di un capello, foglietti spessi 0,1 millimetri. Nulla, assicura la ricetta, potrà scalfire l'oro per settant'anni.

Non meno impegnativo l'enorme lampadario centrale del 1863, sotto il manto celeste su cui sono dipinti Apollo e le sue Muse: un chandelier di 15mila cristalli, ciascuno ripulito e ricollocato per riflettere la luce esattamente come 150 anni fa. A terra, nel foyer – pezzettino per pezzettino, 11 tipi di marmi di diverso colore – sono riapparsi i mosaici veneziani del Bolshoj di Cavos che erano stati sostituiti con legno: solo la scoperta di un frammento rimasto in un corridoio ha consentito il ritorno all'originale.
Dal grande sipario in rosso e oro, ricreato dalla veneziana Rubelli, sono spariti le spighe di grano, la falce e il martello, la stella a cinque punte e la scritta «CCCP», sigla dell'Unione Sovietica: tornano l'aquila imperiale zarista, San Giorgio – protettore di Mosca – con il Drago, la scritta «Rossia». E tornano le iniziali di Nicola II, l'ultimo Zar, nella loggia dei Romanov ora aperta al pubblico.

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