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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2011 alle ore 08:16.

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Molti pensano che lo scopo dell'economia non possa essere solo produrre sempre più beni, e che invece debba essere quello di farci vivere meglio. Ancora più spesso pensieri del genere vengono in mente in periodi di crisi come quello che stiamo vivendo, periodi in cui la stessa funzione degli economisti e della scienza economica è messa in discussione. Il tema riguarda la natura di un buon sistema economico e in sostanza i fondamenti filosofici della teoria economica. Per affrontarlo, Edmund Phelps, premio Nobel dell'economia assai noto per i suoi studi macroeconomici sul lavoro e l'innovazione, ha organizzato (New York, 23-24 settembre) presso Columbia University un convegno su «Philosophical Foundations of Economics and the Good Economy». Il convegno ha visto la partecipazione di uno straordinario gruppo di economisti tra cui, oltre allo stesso Phelps, Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Robert Shiller. A discutere con loro, sociologi come Richard Sennet e Sassia Sasken, psicologi come Martin Seligman e filosofi come Thomas Nagel e me stesso.
Phelps ha impostato la discussione a partire da un'interpretazione vitalistica di Aristotele e Nietzsche. Questi autori hanno – a suo parere – fornito strumenti intellettuali eccellenti per favorire una cultura pragmatista e dinamica. Proprio questa cultura è alla base di quei processi innovativi che consentono al capitalismo progresso e superiorità competitiva. Ma al tempo stesso, sempre per Phelps, solo una cultura del genere consente l'auto-realizzazione e una vita "buona" per adoperare l'espressione di Aristotele. La crisi economica attuale è, da questo punto di vista, anche conseguenza di una crisi spirituale, in quanto valori e sentimenti tipici della cultura vitalistica sono diventati più rari. La fioritura umana favorisce sviluppo e produttività, che languono in sua assenza. Thomas Nagel ha ricordato a Phelps – ribadendo alcuni postulati della saggezza liberal – che il vitalismo nietzschiano e aristotelico propone soluzioni elitiste. Forse, occorre prima preoccuparsi del fatto che tutti abbiano una vita dignitosa e solo dopo occuparsi della loro creatività. Sulla scia di Phelps, ma in chiave del tutto originale, è toccato a uno psicologo empirico come Martin Seligman (Univ. of Pennsylvania) fornire una chiave interpretativa della fioritura umana. In un intervento di rara finezza, Seligman ha chiarito che la fioritura umana non è poi quella cosa cosi vaga che filosofi ed economisti intravedono sullo sfondo delle loro teorie. Al contrario, a suo avviso, la fioritura umana può essere definita e misurata. La misura in questione dipende dalla congiunzione di impegno, capacità di relazione, ricerca di significato e possibilità si realizzarsi che varie forme di vita e lavoro consentono. Il senso di questa misura empirica di benessere individuale viene confermato dalla sociologia culturale di Richard Sennett (London School of Economics). Per Sennett, la crisi attuale, che è crisi di vita buona e capacità produttiva assieme, dipende in parte sostanziale dall'indebolimento della "sociability" come lui la chiama. Quest'ultima a sua volta poggia su caratteristiche relazionali quali la capacità del sistema di creare fiducia e solidarietà tra cittadini e lavoratori, caratteristiche che sono venute progressivamente a mancare. Non hanno fatto granché gli economisti – ha sostenuto Robert Shiller (Yale) – da questo punto di vista: invece di capire una realtà in drammatico mutamento, hanno troppo spesso preferito ripetere formule astratte di rito.
La crisi dei valori e la sfiducia di cui si parla sono, secondo Joseph Stiglitz (Columbia), legate all'aumento dell'ineguaglianza e alla riduzione dell'occupazione (un fenomeno quest'ultimo che colpisce con durezza gli stati Uniti di questi tempi). In maniera elegante, Stiglitz ha mostrato come l'ineguaglianza progressiva abbia convinto le famiglie americane ad aumentare la spesa e diminuire i risparmi, fino ad arrivare a un livello di spesa quasi pari al 100% del reddito. La crisi attuale è in qualche modo figlia di un tale livello di spesa assolutamente insostenibile.
Sassia Sasken (Columbia) ha insistito nel tentativo di collegare la crisi prima finanziaria e poi economica all'ineguaglianza e alle nuove forme di povertà. La trasformazione progressiva del capitalismo da sistema controllato da uomini a sistema controllato da multinazionali e governi senza volto ha provocato eccessi di sfruttamento naturale e umano, i quali a loro volta rendono impossibile prima la vita buona e poi la creatività produttiva. Amartya Sen si è detto nel complesso d'accordo con Seligman sulla possibilità di misurare il well-being, perché misurare in ultima analisi non è tanto frutto di una operazione misteriosa quanto una forma di valutazione più precisa. Sen ha insistito su uno dei temi di fondo del convegno, quello del rapporto tra soddisfazione sul lavoro, vita buona e capacità produttiva. A suo avviso, la crisi di vita buona è legata alla perdita di valori tradizionali tipici delle società pre-capitalistiche che il capitalismo contemporaneo genera, valori come la fiducia e il sostegno reciproco. In questo modo, Sen riprende lo Adam Smith della Theory of Moral Sentiments, libro cui egli stesso ha recentemente dedicato una lunga e meditata Introduzione.
Nel complesso, il convegno ha ridiscusso in maniera promettente i fondamenti filosofici dell'economia a partire dal fatto di una crisi economica che attanaglia tutto l'Occidente. Il dilemma teoretico di fondo riguarda il rapporto tra ricerca perfezionistica della creatività da una parte e valore dell'eguaglianza dall'altro. Il vitalismo alla Nietzsche, riletto in chiave americana come fonte di innovazione produttiva, va forse bene per coltivare se stessi, ma certo non può essere fonte di una visione sociale progressista e aperta a tutti. Su questo asse filosofico si gioca il futuro dell'economia normativa, dall'analisi delle crisi alle teorie della distribuzione. La mia modesta proposta è stata così di usare pure Nietzsche a casa ma di ricorrere a John Stuart Mill e Rawls nella sfera pubblica.

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