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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2011 alle ore 08:14.

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Era il 1984 quando l'allora quarantatreenne Daniel Shechtman osservò, in una lega metallica da lui preparata e contenente alluminio e manganese, qualcosa che le leggi della fisica allora conosciute escludevano assolutamente. Per fare un paragone un tantino irriverente ma comprensibile, sarebbe come se un piastrellista avesse detto di poter ricoprire completamente il pavimento del salotto di casa usando solo piastrelle pentagonali, invece delle solite piastrelle quadrate, rettangolari o esagonali che siamo abituati a vedere. Basta provarci per capire che è impossibile.
La comunità scientifica non reagì molto bene, e per il povero Shechtman furono momenti difficili e dolorosi. Lo schiaffo più forte lo ricevette dal due volte premio Nobel (chimica e pace) Linus Pauling, che in dieci minuti di intervento in un seminario al California Institute of Technology demolì le sue ricerche quasi con ribrezzo. Qualcuno, a titolo di scherno, arrivò al punto di regalargli un libro di testo invitandolo a studiarsi le basi della cristallografia, la scienza che si occupa di come gli atomi si dispongono per formare i diversi tipi di materiali. Pauling, che era stato un pioniere di questa scienza, arrivò a dire che i quasi cristalli erano una patologia simile a quella che aveva portato, pochi anni prima, l'intera comunità scientifica a credere nell'esistenza di una nuova forma dell'acqua, che andava così ad aggiungersi a quelle note (ghiaccio, liquido e vapore). Questa nuova forma era stata battezzata "poliacqua", e avrebbe dovuto essere una specie di plastica realizzata a partire dall'acqua. In realtà, la poliacqua non è mai esistita e gli effetti osservati erano banalmente dovuti al fatto che l'acqua usata per gli esperimenti era contaminata con silicone.
Invece Daniel Shechtman aveva visto giusto: i suoi cristalli-che-non-potevano-esistere invece esistevano, e come. Certo, sono materiali un po' particolari, e ci sono voluti anni per accettarne l'esistenza e comprenderli meglio. Oggi dei quasi cristalli si parla nei libri di testo e nell'iniziare il mio corso di Fisica dello stato solido per gli studenti di Ingegneria fisica del Politecnico di Milano ho voluto dedicare un certo spazio a questa scoperta che ha fatto tabula rasa di un paradigma consolidato. E finalmente, dopo quasi trent'anni, Shechtman il 5 ottobre scorso ha ricevuto il premio Nobel per la chimica.
La vicenda dei quasi cristalli è interessante perché ripropone un dilemma sempre presente nella scienza: se qualcuno sostiene di avere fatto una scoperta straordinaria, che scardina i paradigmi esistenti, come ci si deve comportare? Personalmente non credo che sia possibile dare una risposta valida in generale. La storia ci ha insegnato che la comunità scientifica risponde in modo molto diverso e imprevedibile. In alcuni casi le peggiori sciocchezze assurgono immediatamente a nuova verità, come avvenne nel caso già citato della poliacqua oppure, per citare qualche altro esempio, dei raggi N del Prof. Blondlot o della memoria dell'acqua. In altri casi invece la prima reazione della comunità scientifica è di rigetto, come avvenne per i quasi cristalli di Shechtman. Perché avvenga l'una o l'altra cosa è difficile a dirsi. Quello che più conta però è che, anche per queste controversie scientifiche, il tempo è galantuomo. Magari occorrono decenni, ma prima o poi le sciocchezze vengono dimenticate e le vere scoperte si affermano.
Nella mia attività di ricercatore nel campo della fisica della materia ho contributo a ridimensionare un fenomeno fisico "scoperto" negli anni Settanta e per la cui spiegazione si erano ipotizzate sconvolgenti violazioni delle leggi naturali conosciute. Il fenomeno è quello dell'"aromagnetismo", secondo il quale alcuni materiali organici (per esempio la naftalina) possono comportarsi come il ferro, cioè diventare delle calamite. La realtà è molto più banale: alcuni pezzi di questi materiali si comportano effettivamente come delle piccole calamite, ma solo perché al loro interno ci sono delle impurezze di ferro o di altri materiali magnetici. Di questo però nessuno si è reso conto per decenni, e nel frattempo molti incauti fisici si sono lanciati in arditissime speculazioni che adesso sappiamo essere del tutto infondate.
Proprio in questi giorni è stato dato grandissimo risalto mediatico a una notizia che, se confermata, avrebbe profonde implicazioni su tutte le teorie fisiche conosciute. Sto parlando dell'esperimento realizzato misurando il tempo impiegato dai neutrini per andare dal Cern di Ginevra, dove vengono prodotti, ai laboratori dell'Infn del Gran Sasso. Secondo i primi risultati raccolti i neutrini ci metterebbero un po' meno del tempo che impiegherebbe la luce a percorrere la stessa distanza. Certo, la differenza di velocità osservata è veramente molto, ma molto piccola, e potrebbe essere spiegata con qualche errore nell'effettuazione dell'esperimento del quale non si è sino ad ora tenuto conto. Però, d'altro canto, se fosse vero ci troveremmo di fronte a una nuova sconvolgente rivoluzione scientifica.
In questi giorni si è scatenata la creatività di molti fisici teorici. Alcuni hanno escluso che questo fenomeno sia possibile, altri hanno trovato spiegazioni più o meno fantasiose dei risultati osservati utilizzando le teorie già note. Entrambi questi approcci però sono sbagliati, perché non sono basati su fatti accertati al di là di ogni ragionevole dubbio.

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