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Questo articolo è stato pubblicato il 30 ottobre 2011 alle ore 15:41.

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La medesima posizione la manterrà più di mezzo secolo dopo, esprimendo il suo pessimismo per "l'irrigidimento della società economica" causato dal proliferare di quelli che egli chiamava "municipalizzatori, statizzatori, socializzatori". Einaudi giunse a teorizzare l'esistenza di un "punto critico" di non ritorno, diverso per ogni società, eppure esistente per ognuna di esse, oltrepassato il quale il prevalere dello spirito egualitaristico e del dirigismo economico mettevano in pericolo "l'esistenza medesima della libertà dell'uomo". Einaudi riteneva che quel "punto critico" fosse già stato toccato dall'Italia degli anni Cinquanta.

Questa opposizione alle ideologie egualitariste non significa che Einaudi fosse insensibile a quella che, nel periodo della sua gioventù, veniva chiamata "la questione sociale". Tutt'altro. Il giovane Einaudi ebbe ad esempio in grande favore le leghe operaie, e la loro funzione di "riscatto" delle classi povere. Le leghe esprimevano infatti la concreta volontà di elevare la propria posizione attraverso l'etica del sacrificio e del risparmio. Einaudi esaltò sempre il ruolo positivo della dialettica sociale, "la bellezza della lotta", come egli scrisse nel 1924 in polemica sia con il sorgere del corporativismo fascista sia con le visioni tecnocratiche. E se fu contrario alle ideologie egualitariste di matrice socialista Einaudi, seguace in questo del radicalismo di John Stuart Mill, considerò che principio fondamentale della concezione liberale della società fosse l'eguaglianza nei punti di partenza tra tutti gli individui. Dal che discendeva, tra le altre cose, il suo essere favorevole a significative imposte di successione.

Allo stesso modo, diversamente da molti economisti liberali, Einaudi non riteneva che il paradigma dell'homo oeconomicus potesse e dovesse escludere ampi e sistematici interventi in materia di politica sociale. Permettetemi di ricordare soltanto un passo del 1944: "in una società di uomini perfetti e previdentissimi in cui lo schema della concorrenza si attuasse perfettamente, i salari delle industrie rischiose sarebbero più alti e i lavoratori accantonerebbero di più. Poiché gli uomini non sono né perfetti, né previdenti, giova che l'assicurazione sia obbligatoria". Einaudi liberale e liberista non fu mai contro lo Stato. Non lo fu innanzitutto proprio per ragioni fondate sulla scienza economica. Come egli scrisse nel 1919, "il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei vari fattori, quella che l'esperienza dimostra la più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo Stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall'esperienza, è condizione necessaria perché lo Stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività".

Einaudi economista fu antieconomicista nel negare che la vita sociale e politica possa essere interamente ricondotta alla produzione e alla distribuzione economica. Lo fu nel duplice senso di opporsi alle tesi marxiste nelle loro diverse versioni, e nel negare che il benessere generale fosse la pura somma degli interessi individuali. I diversi e spesso contrastanti interessi individuali sono resi compatibili dall'esistenza dello Stato, il quale – come Einaudi affermò efficacemente - non è "una mera società per azioni". Ma lo Stato che Einaudi reputava così necessario era cosa ben diversa dallo Stato come esso si era venuto affermando dalla fine della Belle époque, si era strutturato nel ventennio fascista, ed era per molti aspetti trapassato nell'Italia del dopoguerra: lo Stato neocorporativo.

Egli aveva compreso chiaramente sin dagli inizi del Novecento un fenomeno che le democrazie liberali del secondo dopoguerra avrebbero poi manifestato in tutta la sua ampiezza, cioè che l'interesse generale di una nazione non corrisponde affatto alla pura sommatoria ed alla collusione degli interessi delle singole categorie professionali e dei gruppi sociali ed economici. Il vero interesse generale può essere perseguito soltanto attenendosi a principi e a regole universali.

Costante rimase in Einaudi l'idea della irriducibilità della dimensione politica all'accordo corporativo da un lato, e alla gestione tecnocratica della cosa pubblica dall'altro. Riferendosi alle tendenze già evidenti nell'età giolittiana, ovvero di trasferire la legiferazione agli esperti, spesso utilizzando lo strumento dei decreti-legge, egli affermava: "diciamolo alto e forte, senza falsi pudori e senza arrossire: la potestà legislativa deve spettare esclusivamente al corpo ‘generico'. Alla Camera presa nel suo complesso, anche se incompetente nelle singole questioni e nei singoli suoi membri. Legiferare vuol dire stabilire dei principi e delle regole di condotta. A farlo non sono competenti gli specialisti e i ‘competenti'. Costoro hanno un ben diverso compito: quello dell'esecuzione". Ammiratore della tradizione cosiddetta "realistica" della scienza politica italiana, ed in particolare di Gaetano Mosca, Einaudi condivideva la massima che gli stati non si governano con i paternostri. Ma egli non volle mai condividere le tesi di chi da ciò traeva la conclusione che la morale dovesse essere bandita dalla politica. Erano infatti per lui i valori morali quelli che, a lungo termine, permettevano la libertà e la prosperità delle nazioni.

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