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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2011 alle ore 20:35.

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Molti anni fa, ormai quindici, nel recensire su questo giornale Kant e l'ornitorinco, Armando Massarenti insinuava un'ipotesi garbata. Che cioè Umberto Eco col mutare dei tempi stesse mutando: anche filosoficamente, gnoseologicamente. Non più semiologia ma discipline cognitive, sì ancora Charles S. Peirce e Wilard Quine, ma soprattutto Hilary Putnam e Diego Marconi. Che insomma fosse sul punto di trasferire la scienza dei segni, con il suo ricco bagaglio terminologico e categoriale, sotto il cielo di un più acconcio e pragmatico realismo. E tutto ciò senza colpo ferire, evolvendo sotterraneamente, facendo vista di imperterrita continuità intellettuale anche dove le innovazioni sembravano prevalere.

Il discorso era già allora convincente, e tanto più necessario per una figura come Eco, onusta di opere quanto restia a tematizzarne davvero le diverse e complesse implicazioni. Pure, se applichiamo una simile diagnosi al recente Costruire il nemico, dove sono raccolti scritti miscellanei, di ordine civico e culturale, ci possiamo accorgere che insieme a strategie di adattamento sottile e progressivo, convivono impulsi di regressione nostalgica. Almeno sul terreno della letteratura – che qui ci interessa in modo prevalente – il richiamo delle esperienze adolescenziali appare alquanto sovradimensionato rispetto agli acquisti e alle posizioni assunte nella maturità. A colpo d'occhio è sempre lo stesso Eco, che con limpidezza erudita affronta i temi più scottanti del nostro oggi: xenofobia, rapporti tra verità assoluta e relativa, dotazione spirituale dell'embrione, mondo dei media e rumore, proverbialità logora e antiutopia. Tutte le prerogative esegetiche dell'autore dalle molte anime sono richiamate in bella mostra sulla pagina; così che il medievista di sempre consuoni con l'avanguardista di ier l'altro, il causeur sopraffino con il geografo dell'immaginario, con il bibliofilo ossesso. E senza che venga mai meno il gusto sapido del racconto, della parodia e della battuta salace che ciascuno sa invitare informalmente al desco della scienza.

É con indulgente ironia, per esempio, che egli torna agli anni in cui con Camilla Cederna e imprecisati amici fiorentini istituiva il Premio Fata, opposto al Premio Strega; quando appioppava a Pasolini il titolo di peggior romanziere della stagione (e Pasolini a rispondere con una lunga lettera, spiegando che no, che non era un giudizio corretto). E con più insidiosa disinvoltura ripercorre la medesima fase, secondo argomenti che non erano degli avanguardisti, che non erano i suoi: il distinguo tra straniamento radicale, gravato di eccesso non proficuo, e sperimentalismo; l'idea che giunto il '68 le eversioni estetiche non fossero più assimilabili alle sovversioni politiche. Insomma tutto il contrario di quanto si dibatteva allora, con gran sfoggio di polemiche in versi e in prosa, progetti di attivismo univoco che si sprecavano su una rivista come Quindici e che si sarebbero protratti sino al tardo movimento bolognese del '77. A simili latitudini ha ragione Massarenti: l'atteggiamento adattativo, cautamente volto all'oggi e a ragionevoli, sensate revisioni ha una certa preminenza in Eco.

Però, quando si arriva al tema del romanzo popolare, cade nel volume un accento diverso. La rilettura dei feuilleton più osannati dal pubblico dei semplici innesca un potente moto a ritroso; quasi un rimpianto di totalità e di predisposizioni vergini perdute. Hugo e il punto di vista di Dio, i suoi elenchi defatiganti da intendersi come puro flusso musicale; Dumas, Sue, Ponson du Terrail e la tecnica mirabolante dell'agnizione o riconoscimento. Sono in definitiva «i meccanismi classici della narrativa», anzi ne rappresentano «le strutture ancestrali», sempre latrici di «una travolgente energia mitopoietica». È vero che con un sussulto di criticismo adulto, e talora pregiudiziale, Eco nega a siffatti romanzi il dono della problematicità, nel mondo che descrivono e nell'intreccio che lo organizza. Ed è vero che la lettura allucinatoria delle grandi appendici ottocentesche può avvenire per lui solo prima, come tappa pedagogica predisponente alla degustazione successiva delle avanguardie novecentesche. Solo sul noto e sul seriale, lascia intendere, si può agire in modo rivoluzionario, verso l'inedito. Ma intanto la passione e il divertimento si indirizzano là, sgorgano dalle origini, secondo procedure di chiaro rientro psichico: «Ricordo che quando ero ragazzo...»; «Vedete che sono trascinato dal mio autore e parlo ormai come lui». E di là muovono verso romanzi ormai post-postmoderni, limpidamente restaurativi, in sostanza, di cui Il cimitero di Praga fornisce un esemplare documento.

Oggi l'Eco più immediato e sincero è questo. L'altro, il joyciano già adepto del Gruppo '63, ne rappresenta il precipitato sedimentario, l'esito ulteriore e testimoniale. E in quanto a Joyce: perché fare di Carlo Linati, precoce e isolatissimo apologeta dell'irlandese, un bolso ripetitore di luoghi comuni. Chi leggesse l'articolo a cui Eco ci rinvia, troverebbe parole di ammirato ap-prezzamento. L'Ulysses, per Linati, è «opera d'un ingegno potentissimo, straordinariamente dotato di culture le più diverse, fantasia, facoltà analitiche e verbali di primo ordine». Perché intrupparlo insieme a ignavi e razzistici notisti come Malaparte, Piovene, Marinetti, per tacere degli altri, ancora troppo giovani o imbambolati? Non si tratta qui di erudizione, ma di opportunità storico-critica.

Umberto Eco, «Costruire il nemico e altri scritti occasionali», Bompiani, Milano, pagg. 334, € 18,50

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