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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2011 alle ore 20:35.

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Sono più di cinquant'anni che rifletto sulla questione del realismo e che cerco di formulare questa concezione nel modo più adeguato. Anzi, potrei dire che in fondo tutta la mia carriera filosofica è consistita nel tentativo di fornire sostegno intellettuale e morale a quanti simpatizzano con il realismo filosofico, in particolare rispetto alla scienza e all'etica. Se infatti agli albori della mia carriera fui vicino al positivismo logico di Carnap e Reichenbach, già nell'autunno del 1957 scrissi The Analytic and the Synthetic, un articolo in cui abbozzavo una visione realistica della scienza. In quell'articolo sostenevo che i termini scientifici che denotano grandezze fisiche, come "energia" e "quantità di moto", non sono meri "costrutti" inventati da noi per rendere più semplici le nostre predizioni rispetto alle entità osservabili. La mia opinione era piuttosto che quel genere di termini continua ad avere lo stesso riferimento anche quando una teoria scientifica che li contiene viene soppiantata da una nuova. Per esempio, il fatto che la fisica di Newton non sia precisamente vera non implica affatto che i suoi "termini teorici" non abbiano riferimento; né implica che tali termini si riferiscano a qualcosa che esiste in un "mondo diverso" rispetto a quello a cui pensava Newton (una tesi che in seguito Thomas Kuhn avrebbe sostenuto nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Poco tempo dopo, nell'autunno 1960, in una conferenza intitolata «What Theories are Not», cui era presente Carnap, sostenni che è errato opporre i «termini osservativi» ai «termini teorici», come se si trattasse di una dicotomia. In quella conferenza definii la mia concezione come una forma di «realismo minimale».

Con il passare del tempo, però, il mio realismo nell'ambito della metafisica si fece più estremo, e negli anni Sessanta e Settanta aderii a una concezione cui più tardi diedi il nome di «realismo metafisico» (anche se la difesi compiutamente solo in un articolo, Do True Assertions Correspond to Reality?). Secondo questa concezione la realtà può essere descritta completamente in un'unica maniera e quel modo di descriverla definisce esattamente l'ontologia, ovvero tutto ciò che esiste. Questa era una concezione metafisica generale, che conteneva al suo interno anche una forma di "realismo scientifico", ovvero una forma di realismo rispetto alla filosofia della scienza, che incorporava la mia vecchia idea che i termini nelle migliori teorie della scienza matura fanno riferimento a entità e grandezze reali.

In quel periodo sviluppai anche un'argomentazione secondo la quale le filosofie antirealistiche della scienza rendono il successo scientifico un miracolo inesplicabile: infatti, come potrebbero le nostre migliori teorie funzionare così bene (per esempio, in termini di predizioni), se non fossero vere o molto prossime al vero?

Al "realismo scientifico" ho sempre continuato a credere, anche quando abbandonai il realismo metafisico che originariamente lo includeva. Dal 1976 al 1990 passai a difendere il "realismo interno", una concezione che, sebbene non rifiutasse i principi del realismo scientifico, li reinterpretava in un modo che ora considero errato. Questa concezione aveva un vago sapore kantiano e affermava che la verità coincide con ciò che è conoscibile in situazioni conoscitive ottimali (o, come si dice in gergo filosofico, in «condizioni epistemiche ideali»).

Negli ultimi anni, però, ho sostenuto una concezione che ho definito «realismo del senso comune», che si oppone tanto al «realismo metafisico» (nella misura in cui afferma che di uno stesso stato di cose si possono dare descrizioni diverse in termini di vocabolari diversi, e queste descrizioni sono irrudicibili le une alle altre) quanto al "realismo interno" (nella misura in cui fa collassare tutto ciò che esiste su ciò che è conoscibile).

Nel corso della mia più che cinquantennale riflessione sul realismo ho dunque assunto varie posizioni: e ciò certamente confermerà l'impressione diffusa che io sia un filosofo che cambia spesso idea. Da una parte, però, credo che nel mio lavoro vi siano anche continuità importanti (rispetto al realismo scientifico, per esempio). Dall'altra non mi vergogno affatto di dare questa impressione: non sono mai stato il tipo di filosofo che pretende di avere la parola definitiva sulle grandi questioni.

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