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Questo articolo è stato pubblicato il 30 ottobre 2011 alle ore 08:13.

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«No, non credo al destino. Penso che le nostre vite siano una progressione di contingenze multiple». Non c'è un verso, nell'universo, per Paul Auster, lo scrittore che nelle sue storie ricche di quesiti metafisici si è lungamente soffermato sulla contrapposizione tra caso e necessità come spiegazione del mondo, lasciando spesso i lettori intenti a domandarsi se ci fosse un senso nelle strane coincidenze narrate. A partire dal romanzo che lo ha reso famoso, Trilogia di New York, dove il racconto prende il via con un evento fortuito, una telefonata nella notte a un numero sbagliato, e prosegue seguendo i capricci del caso, fino al suo ultimo libro, Sunset Park, la cui trama ruota attorno a un litigio tra fratelli finito con la morte accidentale di uno dei due, Auster non manca di esplorare quei fatti incidentali e apparentemente insignificanti che fanno deviare per sempre il corso della nostra esistenza.
«Possiamo prendere decisioni, fare scelte, porci degli obiettivi, se siamo determinati magari riusciamo anche a raggiungerli, ma spesso gli eventi interferiscono, l'inaspettato si manifesta costantemente». Auster risponde al telefono, dalla sua casa di New York. Lo abbiamo chiamato con una certa curiosità: un personaggio di Sunset Park sentenziava: «Gli scrittori non dovrebbero mai parlare ai giornalisti». E poi spiegava: «Le interviste sono una forma letteraria imbastardita, che non ha alcun fine se non di semplificare ciò che non andrebbe mai semplificato». In effetti quello riportato è proprio il suo pensiero, ammette Auster («so appena quello che faccio, è perciò difficile spiegarlo. Ogni cosa che scrivo proviene da un lato profondamente inconscio di me»). Ma ha grande gentilezza e, dopo qualche risposta circospetta, il ghiaccio è rotto.
«Caso e necessità sono presenti nei miei romanzi, ma non sono la forza predominante. È semplicemente il modo in cui il mondo funziona. Sono molto interessato a quella che potremmo chiamare "la meccanica della realtà", il perché le cose succedono e come succedono. Spesso ciò che determina il nostro destino sono fattori del tutto accidentali. Per esempio, cerco sempre di capire come le persone che sono sposate si sono incontrate. Sposarsi, avere dei figli è probabilmente la cosa più importante che uno fa nella vita. E spesso pare che siano dei fatti del tutto accidentali ad avvicinare un uomo e una donna. Questo mi affascina: non direi che è il destino, ma gli eventi casuali che accadono, e il significato che troviamo in questi eventi».
Un altro esempio è nel libro che Paul Aster annuncia di avere appena finito, un'autobiografia: «È un momento di 5 anni fa in cui sono caduto mentre camminavo nell'oscurità in uno strano appartamento di Parigi. Atterrai sul pavimento a 5 centimetri dalla gamba di un tavolo. Se fossi stato 5 centimetri più a sinistra probabilmente sarei morto. Così è successo allo zio di un mio amico. Partigiano antinazista, fu ferito in Jugoslavia, sfuggì alle pallottole, alla guerra, e poi morì nel più banale incidente: inciampando nella notte e battendo la testa sui mobili di casa».
Oltre alle capriole del caso, ricorrenti, nei romanzi di Paul Auster, sono anche gli oggetti. «Dal Paese delle ultime cose – in cui Anna Blume è una "cacciatrice di oggetti" nella città devastata - alla Città di vetro (parte della Trilogia, ndr) dove il vecchio pazzo Stillman gira per le strade raccogliendo oggetti e cercando di attribuirgli nuovi nomi, in effetti posso pensare a molti esempi nei miei libri. Sono molto attratto dagli oggetti. Siamo circondati da loro, nel senso che veniamo alla luce nell'atto di percepire le cose che sono nel mondo». E poi ci sono le assenze. Parlare di ciò che non esiste serve forse a circoscrivere la realtà, come una foto vista in negativo? «È una domanda difficile, rispondo solo con un piccolo esempio. Diventando vecchi perdiamo sempre più persone cui vogliamo bene. Scompaiono dalle nostre vite. Ma la verità è che questi uomini e donne morti restano dentro di noi, le portiamo in giro con noi. Non le vedremo mai più, sono la quintessenza dell'assenza, eppure restano presenti. Ho costantemente la sensazione che quando una persona raggiunge i 45-50 anni, cammina sempre con i fantasmi. Io spendo una buona parte del mio tempo a riflettere su individui che non sono più vivi. Mi sento circondato dall'assenza».
In partenza per l'Italia, dove Auster ritirerà il «Premio Napoli», ricorda Ungaretti, conosciuto a 20 anni. «Fu un momento importante per me. Era molto affascinante, molto vecchio, spiritosissimo. Da me voleva sapere cosa pensavo delle donne americane, e perché erano diverse dalle italiane». Andò a pranzo col poeta perché lo zio acquisito di Auster, Allen Mandelbaum, era il suo traduttore. E a proposito di coincidenze, fu grazie allo stesso Mandelbaum che Auster entrò in contatto con la grande letteratura. Ma non nel modo più ovvio: «I miei genitori non erano laureati, non erano intellettuali e avevamo pochissimi libri. Fin da piccolo amavo molto leggere, ma i libri dovevo prenderli in biblioteca». Poi gli zii si trasferirono in Italia, e la loro biblioteca finì inscatolata nella soffitta di Auster. «Quando avevo 10 anni mia madre mi disse di portare giù i libri e di metterli sugli scaffali. E così, d'un tratto, mi sono trovato a contatto con la grande letteratura di tutti i Paesi e di tutti i tempi. Mi ha aperto gli occhi su molte cose che probabilmente non avrei mai scoperto da solo. È stata una rivelazione». C'è stato un testo in particolare? «Molti. A 15 anni iniziai Delitto e castigo di Dostoevskij. Fu un'esperienza assoluta. Lo lessi in uno stato febbrile. Poi pensai: se questo è ciò che un libro può essere, allora voglio scrivere libri».