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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2011 alle ore 19:19.
Nel 2010, durante un breve soggiorno al mio paese mi raggiunse l'ennesimo invito a trascorrere una mattina nella mia vecchia scuola, l'Empedocle, dove ho frequentato il ginnasio e il liceo. Stavolta l'invito era così cortese e discreto che mi sentii costretto ad accettare. Due giorni dopo un amico m'accompagnò ad Agrigento, che dista appena sei chilometri dal mio paese.
Durante il primo anno di ginnasio raggiungevo la scuola con un autobus stracolmo di ragazzi come me che partiva alle sette del mattino, dato che impiegava mezzora a percorrere i sei chilometri. Dentro quell'autobus ci scatenavamo, scoppiavano guerre per bande, volavano libri, cartelle, calamai. Allora l'autista, don Pedro, fermava e lui e il bigliettaio, il signor Lima, tentavano di sedare il tumulto e soprattutto di placare l'ira dei normali viaggiatori che si ritrovavano col cappotto macchiato d'inchiostro o con una tasca strappata. Fu così che, da un certo giorno in poi, gli autobus diventarono due, uno dei quali interamente riservato agli studenti.
La terza liceo l'ho terminata nel 1943 e da allora non ci sono più ritornato.
Il liceo si trova sempre nello stesso edificio, però è stato completamente ristrutturato e adesso c'è un nuovo ingresso. Mi accolgono il preside e il corpo insegnanti, gli studenti m'aspettano nella palestra. Comunque, la ristrutturazione ha mantenuto il lunghissimo corridoio sul quale si aprono le classi e che termina con una specie di nicchia nella quale c'è il mezzobusto del filosofo Empedocle d'Agrigento. Mi torna a mente che fu proprio alla prima ginnasio che assistetti al rito solenne della "magna infamia", instaurato dal preside di allora. Stavamo facendo lezione quando il bidello Pancucci invitò tutte le classi a uscire e a schierarsi nel corridoio nel silenzio più assoluto.
Quando tutti fummo schierati, professori compresi, apparve il preside che teneva per un orecchio uno studente del primo liceo che doveva averla fatta grossa. Il preside cominciò a percorrere il corridoio tra le due ali di ragazzi e ragazze con passo lentissimo, quasi conducesse un condannato a morte all'esecuzione. Poi, arrivato davanti al busto d'Empedocle, spinse in avanti il reprobo e chiamò, a gran voce: «Empedocle!». Seguì un silenzio di tomba. Io ero atterrito, m'immaginavo di veder apparire da un momento all'altro il fantasma del filosofo. Quindi il preside gridò: «Empedocle, sputagli!». E subito dopo fu lui stesso a emettere il suono di uno sputo gigantesco, ultraterreno. Poi si voltò verso di noi e ci ordinò di tornare in classe.
«Dov'è la seconda B del ginnasio?» – domando –. Mi ci accompagnano, senza chiedere il perché della richiesta. E se me l'avessero chiesto, non avrei detto la verità. Ora invece la dico. Visto e considerato che non avevo nessuna voglia di studiare e che trascorrevo i miei pomeriggi per le strade coi miei amici figli di pescatori e di carrettieri a far danni, i miei decisero di mandarmi al Collegio vescovile di Agrigento. Il Collegio non aveva una sua scuola e così, ogni mattina, inquadrati, ci recavamo all'Empedocle. Alla seconda ginnasio capitai in una classe mista. Nel banco vicino al mio, ma separato dal corridoietto, sedeva la prima della classe, una bella e assai intelligente compagna che si chiamava Giuliana. Nel mio vocabolario di latino, nella penultima pagina di copertina, c'era una specie di tasca dove ci stava infilata una piccola grammatica, che però il professore sequestrava quando dovevamo fare il compito in classe.
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