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Questo articolo è stato pubblicato il 06 novembre 2011 alle ore 08:14.

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«Gli italiani sono sempre stati i migliori, con mio marito!»: questo – correva l'anno 1995 – il parere informato di Lucette Almanzor, vedova Destouches. La vedova di Céline. L'ex ballerina e maestra di danza allora ultraottantenne e oggi quasi centenaria che nello sfacelo di una villetta della periferia parigina, a Meudon, fra un brulicare di animali domestici e l'incombere delle case popolari, aveva nuovamente aperto la porta – come già quarant'anni prima, vivente il marito – a un italiano viaggiatore di professione, l'Alberto Arbasino di Parigi o cara.
Céline e l'Italia: una questione da riaprire. Approfittando dell'uscita imminente, per le edizioni Medusa, di un saggio scritto da Riccardo De Benedetti e dedicato al più scabroso fra gli scabrosissimi testi di Céline, Bagatelles pour un massacre: il pamphlet «abominevolmente antisemita» (così lo definiva Céline stesso) pubblicato da Denoël nel dicembre 1937 e sollecitamente tradotto in italiano nell'aprile 1938, con appena pochi mesi d'anticipo sulla promulgazione delle nostre «leggi razziali».
Il libro di De Benedetti vale a sottolineare il paradosso di una divisione persistente e incongrua, ma forzosa e inaggirabile, tra due Céline. Da una parte il Céline editorialmente coltivato e letterariamente venerato del Viaggio al termine della notte, di Morte a credito, di Rigodon, quello che contende a Proust la palma di massimo scrittore francese del ventesimo secolo. Dall'altra parte il Céline ideologicamente maledetto e legalmente interdetto delle bagatelle, quello che circola qua o là in versioni clandestine stampate in Paraguay, che percorre sul web le autostrade dell'odio, e che in Italia si può comprare fermo posta grazie a un marchio – la Libreria Ar – di trasparente ispirazione neonazista.
Fa comodo a molti questa divisione fra i due Céline: a cominciare dagli editori di letteratura "alta", che possono passare all'incasso con l'arte dello scrittore senza sporcarsi le mani con l'abominio del pamphlettista. Culturalmente parlando, è una divisione che non regge: il Céline maggiore – il Céline degli anni Trenta – fu un tutt'uno, ed è assurdo farlo a fette. Ma giuridicamente parlando, non c'è nulla da fare: depositaria dei diritti sull'opera del marito, Lucette Destouches ha finora vietato qualunque ripresa editoriale dei testi antisemiti, e tutto lascia prevedere che il divieto sarà compreso, dopo la morte della vedova, fra le clausole trasmesse all'esecutore testamentario. Dunque, si dovrà forse attendere il 2031 (l'anno in cui l'intera opera di Céline diventerà di dominio pubblico) per leggere le bagatelle senza farsi complici di una pirateria.
Per misurare quanto sia incongrua la divisione fra i due Céline, è sufficiente aprire la raccolta di Lettere recentemente pubblicata da Gallimard nella collana della Pléiade. Lì, il Céline-tutt'uno degli anni Trenta non è stato colpito da interdetto: nella sua corrispondenza lavorativa come in quella privata, l'arte dello scrittore e l'abominio del pamphlettista convivono fianco a fianco, senza distinguo di comodo fra il narratore geniale e il pornografo razzista. Ma per misurare quanto sia incongrua la divisione fra i due Céline riesce utile prendere le mosse anche dal saggio di De Benedetti. In particolare, dalle sue pagine sopra la prima traduzione italiana delle bagatelle per un massacro, pubblicata nel 1938 dall'editore milanese Corbaccio.
Confrontando l'originale francese e la versione italiana, De Benedetti sottolinea come quest'ultima uscì emendata (resta da sapere se per iniziativa personale del traduttore, o dietro esplicita richiesta dell'editore, o per l'intervento esterno di un'autorità fascista). In pratica, rispetto alle Bagatelles francesi, le bagatelle italiane finivano per temperare l'antisemitismo di Céline: ne tagliavano le punte più aguzze, sia in quanto a volgarità escrementizie o sessuali, sia in quanto ad allusioni ideologiche o politiche. «Tutte le fighette, Ferdinand, tutte vogliono sbattersi i giudei»; «Siamo in pieno fascismo ebreo»; «La politica del Vaticano è sempre a favore della giudaglia»: ecco tre esempi di tagli operati sulla versione italiana rispetto all'originale francese.
Curiosamente, De Benedetti rinuncia a interrogarsi sulla figura di quell'Alex Alexis che il frontespizio dell'edizione Corbaccio indicava come autore della traduzione. «Con ogni probabilità uno pseudonimo», De Benedetti si limita a ipotizzare. Né si preoccupa di aggiungere che il medesimo pseudonimo aveva figurato cinque anni prima sul frontespizio della traduzione italiana dell'opera prima di Céline: il Voyage au bout de la nuit, che nel 1932 aveva rivelato immenso il talento del medico-scrittore Destouches. Così, De Benedetti perde l'occasione per notare come già il primo libro di Céline fosse stato abbondantemente emendato nell'edizione Corbaccio. Non già per temperare un eccesso di antisemitismo, assente nel Voyage, quanto per occultare – anche in quel caso – le volgarità più esplicite e i riferimenti sessuali più spinti.
Censure a parte, domandarsi chi si nascondesse dietro lo pseudonimo di Alex Alexis vale a ritrovare l'essenziale: il contesto culturale che rese possibile anche nell'Italia di Mussolini una ricezione immediata di Céline, il quale pure – per anni ancora dopo il 1932 – poteva ben sembrare, nella sua durissima critica della guerra, del colonialismo, del fordismo, scrittore «di sinistra». Alex Alexis era il nom de plume di tale Luigi Alessio, un trentenne piemontese emigrato a Parigi che la polizia segreta del Duce, sempre a caccia di cospirazioni da smascherare, considerava vicino agli ambienti di Giustizia e Libertà, ma che più banalmente cercava di sbarcare il lunario secondo la vecchia tradizione della bohème letteraria: attraverso collaborazioni editoriali pagate un tanto alla pagina.

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